“E tu lasci che sia un cosino così piccolo a dirti che cosa devi fare?”
Questa frase, che un’ingenua e deliziosa Diana rivolge ad uno Steve Trevor nudo come un verme potrebbe da sola riassumere tutto il senso di questo film.
È una bestia strana Wonder Woman, osannato dalla critica d’oltreoceano come una seconda venuta del Messia e distrutto da buona parte di quella italiana, in realtà è un film piuttosto neutro, a tratti scialbo e con un forte senso di dejavu.
La Marvel aveva già fatto di meglio nel 2011 col primo film su Steve Rogers, sia a livello di scrittura che di resa filmica. Il cinecomic dc Warner del 2017 fallisce in tutti quegli ambiti anche solo prettamente tecnici, come la CGI (orrenda e dozzinale nel terzo atto), il villain (insulso, telefonatissimo e piagato da un casting tremendamente fuori luogo) e il cast di contorno (la brutta copia degli Howling Commandos che ci troviamo davanti serve solo da risibile riempitivo e non aggiunge nulla al cuore del film)
Ma, come quasi sempre date queste premesse, abbiamo un “ma”
E questo “ma” è la straordinariamente meravigliosa Gal Gadot, sulle cui nude spalle (che provocano più di una battutina fuori luogo in trincea) si regge l’intera pellicola.
Questa doveva essere una semplice recensione di un cinecomic, ma mentre la elaboravo si è trasformata gradualmente in una lettera d’amore al genere femminile.
È evidente, quasi troppo, che la battuta con cui ho aperto l’articolo è riferita in realtà al pisello di Trevor e non all’orologio sul quale i due personaggi stavano dibattendo.
Ed è davvero lì che troviamo il cuore del film, una pellicola profondamente femminile (non femminista) che ci mostra la netta dicotomia di risoluzione dei conflitti che esiste nell’esperienza umana al femminile e al maschile.
Gli uomini, gretti e meschini, in larga parte guidati dagli istinti più bassi e da quello che gli pende in mezzo alle gambe pensano di poter risolvere tutti i conflitti tramite… Beh, altri conflitti. In questo è fondamentale anche il concetto di “guerra che pone fine a tutte le guerre” cioè il tremendo controsenso sul quale si basa tutta la filosofia maschile. Come se si potesse spegnere un fuoco con un lanciafiamme.
Al contrario Diana e le amazzoni, pur essendo forti ed addestrate alla lotta come e più delle loro controparti pene dotate, ritengono che sia solo e sempre l’amore la chiave per giungere alla pace, alla fine di un conflitto, allo stadio successivo dell’evoluzione e dell’esperienza umana.
La donna è forza creatrice, l’uomo afflato distruttivo.
La modella israeliana, il cui casting è stato accolto illo tempore con sdegno dalle solite faine del web(“ha le tette troppo piccole”, Dio che schifo… E a dirvelo é uno che è letteralmente ossessionato dal seno e dalle dimensioni dello stesso) incarna splendidamente il concetto di grazia femminea di cui è stata per decenni alfiere Wonder Woman nei fumetti, ogni suo sorriso illumina lo schermo, il suo viso genuinamente contrito di fronte agli insensati orrori della guerra e la sua irreale bellezza fungono da perfetta contrapposizione all’angusto orrore spaziale delle trincee e si ergono a baluardo dell’amore e della pace mentre tutti intorno a lei sembrano dimenticarsi di cosa significhi essere umani.
Il film è neutro, né un capolavoro né un imbarazzante spreco di pellicola come Suicide Squad, ma se potrà servire ad una intera nuova generazione di donne ad avere un faro pop che le ispiri e le guidi verso il posto che spetta loro di diritto in questo folle ed anarchico palloncino di fango e lacrime sul quale viviamo allora è un bene che qualcuno lo stia glorificando, al netto dei suoi evidenti difetti di natura prettamente cinematografica.
Portate le vostre bambine a vedere un film in cui appare una donna che sa essere forte e giusta, misericordiosa e spietata, guerriera e madre allo stesso tempo.
Magari non avranno ancora i mezzi tecnici per capire che il film non è un granché, ma forse un giorno, quando saranno donne, vi ringrazieranno.