Non si ha mai troppo tempo per ritagliare uno spazio per se stessi.
Eppure in alcuni casi è necessario sedersi e sprofondare nella propria poltrona.
A volte, il luogo migliore è il proprio salotto.
Serranda abbassata, piedi scalzi, musica in sottofondo: Chernobyl, il nuovo disco dei Cronofillers.
Una colonna sonora che racconta un futuro attuale tendente ad una distopia realizzabile.
Mi sarebbe piaciuto discutere con i Cronofillers l’evoluzione da De’ Canters, a Cono D’Ombra per arrivare a questa nuova concezione di rap, che ricorda le origini, ma con delle vibrazioni cupe e tematiche che trasmettono una leggera angoscia.
Li ho invitati: Lo Snooze, Il Della (vecchie conoscenze), Gregor e C. Nova si sono accomodati nel mio salotto astratto. Ho offerto un bicchiere di latte alle mandorle, ma hanno preferito concentrarsi sulle proprie risposte.
Abbiamo chiacchierato, io ho bevuto la mia bevanda dolce e ho fumato almeno cinque sigarette.
L’ultima volta che ho sentito parlare di “Cono D’Ombra”, mi ricordo che era il 2012: un video di notte con una panchina, un’ambientazione stile Pacciani e il Della non rappava. Come ricordate il video di “Radio Ombra”?
LO SNOOZE Tanto disagio. Eravamo partiti per girare un altro video da qualche parte in Pratomagno, ma poi la neve, il perdersi in mezzo ai boschi, catene che si spezzano, batterie che si scaricano, bestemmie varie ed eventuali, e ci troviamo a inventarci di sana pianta un video alternativo mentre torniamo verso valle: d’altra parte ormai l’attrezzatura era stata pagata. Il Della faceva da spietato censore e da tecnico luci (con un paio di torce e i fanali di tre macchine), nonché da stativo per la cameraman (che non ringrazieremo mai abbastanza, ciao Eli!), e alla fine ci siamo trovati a girare le ultime scene sulle sponde dell’Arno, a due passi da dove eravamo partiti il pomeriggio.
I primi provini che Lo Snooze ha cercato invano di farmi ascoltare risalgono ad un sacco di tempo fa. Perché ci avete messo così tanto a far uscire il disco?
IL DELLA La verità è che siamo lenti, persi tra il lavoro e mille progetti, e lontani geograficamente, quindi tutto richiede un certo sforzo. Inoltre siamo dei perfezionisti, ma anche insicuri, con tutte le terribili conseguenze che questa combo porta con sé. Aggiungici che prima di metterci a scrivere c’è stata tutta una preparazione necessaria a entrare nel mood che volevamo descrivere, poi giornate passate a discutere di dettagli, mettici che siamo pure dispersivi e facili al cazzeggio, hai in mano tutto il necessario per portare avanti un lavoro a oltranza. A complicare il tutto, quando poi pensavamo di aver trovato il giusto approccio, è arrivato anche il bando del Toscana100Band, che ci ha tenuti impegnati fra burocrazie e scadenze per 3/4 mesi buoni. Alla luce di tutto questo, poi, c’è da dire che il disco l’abbiamo ufficialmente finito di registrare a ottobre: i 6 mesi successivi sono stati praticamente tutti tempi tecnici (necessari alla rifinitura e alla promozione) che nel nostro approccio naïf non avevamo assolutamente preventivato.
Chernobyl è un concept album che rispecchia un futuro distopico con elementi contemporanei e riferimenti ad una realtà storica di trent’anni fa (Chernobyl, appunto). Come avete coniugato tutti questi elementi lontani l’uno dall’altro in un unico immaginario?
IL DELLA In realtà i riferimenti alla realtà storica si limitano al nome della città. La scelta è ricaduta proprio su Chernobyl più per il potere che quel nome ha sull’immaginario collettivo della nostra generazione, che per un reale riferimento storiografico. Serviva un posto freddo, inospitale, disastrato, ma allo stesso tempo che portasse con sé un forte richiamo a una realtà operosa e industriale. In questo scenario abbiamo ambientato la nostra visione distopica di un futuro in cui si sono instaurate, dietro altre facce, le stesse dinamiche che caratterizzano anche il presente.
Il disco è una sorta di intreccio tra “1984” e “Artificial Kid”. Come avete delineato la storia di “Chernobyl”? Penso, inoltre, sia abbastanza difficile riuscire a concepire una storia di un disco combinando cinque menti diverse (soprattutto quella del Della). Come ci siete riusciti?
C. NOVA Una delle caratteristiche fondamentali di tutto il progetto “Cono d’Ombra”, che in “Chernobyl” trova (finora) la sua massima espressione, è che l’individualità degli mc è messa totalmente in secondo piano. Per far sì che i riferimenti fossero meno personali possibile, abbiamo definito una bibliografia e filmografia essenziale per fornire un contesto narrativo unico, dal quale pescare per parlare degli argomenti che ci stavano a cuore. Quindi sì: “1984” e “Artificial Kid”, ma anche i vari “Mad Max”, le “Cronache del dopobomba” di Philip K. Dick, la trilogia del Drive-In di Lansdale e il “Condominio” di Ballard, manga come Alita o Akira, “Gattaca”, “Il mondo nuovo”, “Il pasto nudo”, Vasco Brondi e i CCCP. E sì, certa roba non è stato facile farla digerire al Della. Nel frattempo Gregor ha prodotto qualcosa come 30/40 beat tutti perfettamente legati da una stessa idea di produzione e un mood sonoro coerente, su cui abbiamo immaginato Chernobyl e buttato giù il canovaccio di una storia che rimanesse sottotesto e legasse i brani tra loro pur senza diventare uno storytelling. A questo punto ci siamo presi il lusso di selezionare i beat più adatti e scartare tutto ciò che non era funzionale alla trama, al contrario del disco vecchio, per il quale ci eravamo trovati ad arrangiare canzoni in buona parte già scritte.
I campionamenti del disco sono tutti estratti da brani storici della tradizione del cantautorato italiano. Scelti, inseriti e snaturati totalmente dalla leggerezza dalla quale derivano, inserendoli in un contesto concettualmente discordante dall’originale. Da dov’è nata l’idea di questo contrasto?
GREGOR A parte i drum breaks, i campioni non provengono solo dal cantautorato impegnato, ma anche dal più bieco pop, dalla beat anni ’60, dal prog e dalla neomelodica napoletana. L’idea in questione è nata con “Poveri fiori”, nel primo disco, dove i turbamenti sentimentali di Mina erano diventati voce per una madre di fronte alla morte del figlio. A questo giro, ho voluto insistere su questa strada, supportato anche da Acidovic che ha scratchato citazioni storiche, poesie, frasi di film, piegandoli a sua volta alla narrazione. Snaturare il contesto originale, oltre a divertirmi, è la mia personale reinterpretazione del concetto di sampling: mi sono divertito a trasformare in un inno riot il “Se bruciasse la città” di Ranieri, il “te vengo a cercà” di Tony Bruni alla sua donna in una preghiera al dio che ci ha abbandonati, o il “La vita si ripete” di Milva in un loop sonoro e concettuale dal quale fuggire cavalcando, poi, verso ovest. È un ambito di ricerca che mi appaga e mi rappresenta: il soul e funk sono ispirazioni assolute e imprescindibili ma indotte, quindi ho pensato fosse più giusto scavare nel background culturale italico per raccontare in maniera parafrasata la realtà che ci troviamo a vivere. Più che essere un fan di questa musica è il senso di sicurezza, affezione e familiarità che mi ha portato a esplorare il potenziale in termini di groove di certi suoni, anche per offrire sonorità di maggior respiro al disco.
Come dicevate, non vivete tutti nello stesso posto: come si finalizza un disco coordinandosi in una città lontana dall’altra?
LO SNOOZE Finalizzare un disco concepito per essere coerente è assai diverso dal concepire un disco “tu fai le basi, io faccio i testi”. È frutto di una pedante pianificazione iniziale che abbiamo provato a rispettare, fatta di tanto amore e sbattimenti, tolleranza reciproca e weekend di lavoro intenso. Il resto l’hanno fatto internet, i genitori di Gregor che ci hanno prestato la mansarda a uso studio (nonché rimpinzati di cibo e caffè) e cinque fidanzate fin troppo comprensive. Abbiamo insistito, fino a che è stato possibile, affinché fossimo presenti contemporaneamente tutti durante le registrazioni, così da poter risolvere le eventuali criticità lavorandoci insieme in studio. I ritornelli di “Cavalcò verso ovest” e de “La fabbrica di rottami”, l’adattamento della terza strofa di “Chernobyl”, le connessioni fra le parti ne “Il Bar dell’interzona”, tutti lavori svolti in gruppo. Per il resto è stata necessaria una buona dose di fiducia reciproca. Assodate le competenze personali di ciascuno di noi, abbiamo potuto delegarci alcune porzioni di lavoro che non dovessero necessariamente passare dall’approvazione di tutti. Siamo anarchici e autarchici, ma la cosa che rende tutto un po’ più facile è che rispetto alla media dei rapper abbiamo egotrip piuttosto modesti e siamo poco gelosi delle idee del singolo: siamo cinque individualisti con una forte etica del collettivo.
Perché nell’ondata di superficialità musicale che si ha oggi (a parte qualche eccezione nell’underground), avete realizzato un disco con una forte matrice socio-politica? Non pensate che le persone che già vivono nella propria quotidianità un consapevole disagio, siano restie ad ascoltarlo anche in musica?
GREGOR Sì, ma dato che siamo persone pesanti e fondamentalmente vecchi dentro, ce ne sbattiamo delle tendenze del momento e il concetto di “modernità” è sostituito dalla volontà di parlare dei tempi che corrono con i mezzi di cui disponiamo, che sono quelli che ci portiamo dietro da sempre. Parlare di società e politica, per noi adesso, è cercare di parlare delle nostre vite e di chi ci è vicino, sia in termini oggettivi sia in termini di categorie di persone che rappresentiamo. È stato un disco terapeutico per noi in primis, che nel comunicare siamo sempre piuttosto sarcastici ma nella realtà siamo cinque emotivi del cazzo che provano a sfogarsi al mic o nei suoni.
“Chernobyl” è un disco molto Hip Hop, sia nel flow, sia nelle basi. Non ci sono intermezzi cantati, auto-tune o elementi che ultimamente inflazionano le casse degli italiani. Una differenziazione un po’ retro. Pensate che sia comunque attuale ed apprezzabile da un pubblico abituato a canticchiare canzonette?
IL DELLA Come puoi ben immaginare, tocchi un tasto dolente. Per quanto abbiamo fatto uno sforzo di semplicità nell’esporre i concetti, ci siamo messi da subito nell’ottica che non sarebbe stato un disco apprezzabile in modo trasversale da tutto il pubblico, né tantomeno un disco che sarebbe andato incontro ai gusti degli attuali utenti dell’hip hop in Italia, qualunque cosa rappresenti ciò nel 2017. È un disco lungo, non tanto nel minutaggio quanto nella mole di argomenti che tratta, ma può piacere a chi è curioso e pronto a calarsi in una storia, per certi versi amara, per altri grottesca, che è un po’ quella di chi è nato negli anni ’80. Al contrario della musica che va per la maggiore, non è un disco fatto per rassicurare, ma è un disco di domande, le nostre, con una piccola, parziale risposta: quell’unico pezzo “positivo” che abbiamo mai scritto e che chiude il racconto. È un disco dal suono low-fi, fra le tante scelte impopolari fatte con consapevolezza, ma senza nessuna sorta di snobismo o ricerca di distacco. In un certo modo è stato uno sforzo di coerenza: abbiamo fatto quello che sappiamo fare, il rap, nel modo che più ci rappresentava. Alla fine siamo riusciti a parlare di noi parlandoci il meno possibile addosso.
La cura della parte visiva del disco l’ha curata Lo Snooze? Ancora insisti con questa cosa della grafica?
LO SNOOZE Da diversi anni disegno felicemente soltanto sedie, banconi per bar segreti e soffici divani, mentre le bellissime grafiche, il sito e tutte le immagini sono curate dallo studio parcodiyellowstone.
Dal vino dei De’Canters a una “Birra al retrogusto di trielina” (se non ho capito male). Della, hai cambiato gusti? Lo Snooze, non beve più, apre solo bandoni?
IL DELLA Premetto, per chi non lo sapesse, che i De’Canters erano il gruppo in cui io e Lo Snooze militavamo fino a qualche anno fa, insieme a Mr En e Killawatt – oggi parte dei BlkRoc – e che era caratterizzato da un approccio più leggero e scherzoso. Ciò detto, considerato che dal Valdarno siamo passati a “Chernobyl”, l’offerta enogastronomica non poteva che variare di conseguenza. Fuori di metafora, ammetto di aver fatto più fatica degli altri a calarmi in questi nuovi panni, ma era piuttosto evidente che il filone iniziato con Brindisino l’avevamo ormai adeguatamente esplorato ed era il momento di passare oltre, per non trovarsi a cadere nello stereotipo fine a se stesso.
LO SNOOZE La roba fatta coi De’Canters esprime un atteggiamento in cui mi riconosco, ma che non è mai stato così dominante nei temi che volevo toccare. Naturalmente non rinnego nulla e mi scappa ancora da ridere (positivamente) a sentire quelle rime e quell’attitudine che in un periodo in cui nel rap ci si prendeva solo sul serio erano decisamente anomale.
Ma alla fine in “un mondo che sembra ormai condannato”, dove Clark Nova “Nonostante tutto ha ancora voglia di cantare”, Il Della ha come condanna “La necessità di luce” e Lo Snooze è “libero”, veramente “… Andò tutto bene”?
C. NOVA Il finale l’abbiamo rubato pari pari da “La notte del Drive In”, per cui lasciamo chiudere a Lansdale: “La vita è come quel libro di cui ci parlava il tizio di Città di Merda. Ci sono sempre un paio di pagine strappate, per cui uno non sa come va a finire. Tuttavia, io ho un debole per il lieto fine. Diavolo, una volta credevo in Dio e nell’astrologia. Perciò mi darò un lieto fine, anche se non ne avrò uno nella vita reale. Il finale migliore che mi venga in mente è quello che quel tale ha scritto sulla copertina interna del libro. Può darsi che non sia la verità per nessuno di noi, ma come diceva il bibliotecario, è difficile trovare qualcosa che vada meglio. Perciò, vero o falso che sia, eccovelo: Cavalcò verso Ovest, e andò tutto bene”.
Per ascoltare Chernobyl dei Cronofillers, cliccate QUI.