Chi mi segue sui social si è sicuramente accorto che la scorsa settimana sono stato al Lido di Venezia per la La 74ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica che, per la prima volta, ha aperto la sua sezione VR.
Ero il missione per conto di Corto Dorico, prestigioso festival di Ancona, con cui presto faremo qualcosa che vi annuncerò quanto prima.
Riguardo al festival “tradizionale” dirò solo che è stato magico e che, al netto dei film che sono riuscito a vedere, vi consiglio su tutti il meraviglioso Three Billboards Outside Ebbing, Missouri di Martin McDonagh e il documentario Jim & Andy: the Great Beyond – the story of Jim Carrey & Andy Kaufman with a very special, contractually obligated mention of Tony Clifton di Chris Smith, che ho avuto la fortuna e l’onore di vedere in sala con la presenza di Jim Carrey.
Ma passiamo alla sezione VR e alle varie considerazioni su questo nuovo linguaggio.
Partiamo dal dire che La Biennale ha trattato la materia con estrema serietà, tanto che il presidente della giuria del concorso VR era nientepopòdimeno che John Landis (che ho incontrato e con il quale ho avuto l’onore di parlare). Sono stati presentati ben 22 progetti in concorso e 9 fuori concorso, il tutto posizionato nella suggestiva isola del Lazzaretto Vecchio, raggiungibile in pochi minuti di navetta.
Durante la mia permanenza sono riuscito a vedere quasi tutti i progetti, nonostante le difficoltà logistiche (molta più affluenza di quanta la sezione riuscisse a soddisfare) e devo dire, che il palmares mi vede abbastanza in linea con la giuria.
Venice VR era suddiviso in tre sezioni: VR Theatre, Stand-Up e Installation.
Il VR Theatre è forse la cosa più vicina al cinema perché, sebbene si tratti sempre di pratiche immersive con visore, è comunque un’esperienza collettiva in quanto il “film” inizia e finisce contemporaneamente per tutti i cinquanta partecipanti (esattamente come presentammo No Borders lo scorso anno).
Questo tipo di esperienza individuale-collettiva ha il pregio di ricreare il dibattito post-visione, cosa che sfortunatamente è andata a perdersi nel cinema tradizionale.
Per forza di cose all’interno di un’esperienza virtuale a 360° c’è molta più possibilità -rispetto alla visione tradizionale-, di perdersi dei “pezzi” durante la proiezione: alle spalle di chi guarda potrebbe esserci qualcosa che sfugge. Proprio questo aspetto, se sfruttato intelligentemente, diventa in realtà un punto di forza e un argomento sul quale confrontarsi a fine visione.
Ne è un esempio il corto The Argos File di Josema Roig, dove ci ritroviamo nei panni di un investigatore della memoria: siamo nel 2034 e la tecnologia permette di risolvere i casi attraverso le ultime memorie della vittima. L’utilizzo della realtà virtuale serve quindi a rivivere gli ultimi istanti prima dell’omicidio, sfruttando il potenziale 360° per indagare.
L’altro film che mi ha colpito è stato Bloodless di Gina Kim, la vincitrice della sezione.
Bloodless racconta di alcune prostitute al servizio di una camptown dell’esercito statunitense di stanza in Corea del Sud a partire dagli anni ’50. In particolare ripercorre gli ultimi istanti di vita di una prostituta realmente esistita, assassinata nel ’92 da un soldato statunitense.
La cosa che funziona di queste due esperienze è proprio il giusto sfruttamento del mezzo.
Nel primo caso ha senso vivere un film in soggettiva, nel secondo invece, che al contrario dell’altro punta tutto sul realismo, il valore di trovarsi in uno spazio lontano da noi crea l’effetto teletrasporto che valorizza il mezzo.
La stessa cosa si può dire del documentario fuori concorso Denoise di Giorgio Ferrero, che sottolinea ancora di più il concetto che esprimevo prima: l’esperienza in realtà virtuale permette allo spettatore di immergersi in luoghi a cui difficilmente potrebbe accesso nella vita reale.
Nel film di Ferrero ci troviamo in un campo petrolifero in Texas, nella sala motore di una nave cargo e nella fossa dei rifiuti di un termovalorizzatore: tutti luoghi nei quali gli operai che ci lavorano (i protagonisti del documentario), vivono le loro giornate nel silenzio e nella solitudine, esperienza che percepiamo molto bene nei 12 minuti della durata del filmato.
Gli esperimenti che invece non mi hanno assolutamente convinto (perché è importante sottolineare che si tratta ancora di un linguaggio sperimentale) sono: Gomorra VR di Enrico Rosati, Jia Zai Lanre Si (The Deserted) di Tsai Ming-Liang, ON/OFF di Camille Duevelleroy e Isabelle Foucrier, Chromatica di Flavio Costa, per motivi diversi che ora spiegherò.
Nel caso della produzione di Sky Cinema: Gomorra VR, non è tanto la narrazione a non funzionare (si tratta di una storia breve di due ragazzi che rubano delle armi ma che vengono beccati, il tutto introdotto dai protagonisti della serie TV), quanto la tecnica che mi ha creato un costante effetto “mal di mare”.
È stato interessante vedere l’utilizzo di carrelli, droni e vari movimenti di macchina (tra l’altro curati molto bene), ma la fruizione ne risente troppo, ci troviamo infatti trascinati da una parte all’altra contro la nostra volontà.
Nel caso di The Deserted invece il problema è opposto.
Il film racconta la solitudine e la convalescenza di un uomo che si rifugia in una casa in montagna.
Il vero dramma è la durata: 56 minuti.
L’idea è di focalizzarsi sui personaggi e sulle ambientazioni ma, vedere una scena statica per cinque minuti, è veramente eccessivo.
Nel caso di ON/OFF (che ci porta all’interno di un reparto di terapia intensiva), così come in Chromatica (che racconta la storia d’amore di due vicini di casa), il vero problema sono i tagli.
Una cosa che non funziona in questo tipo di linguaggio sono i tagli troppo brevi: non hai il tempo di capire in che tipo di spazio a 360° sei, che già ti trovi in un nuovo ambiente (ON/OFF); né i cambi di inquadratura all’interno dello stesso ambiente: ci si sente totalmente spaesati e ci si distrae dalla storia (Chromatica).
Tutt’altro discorso invece per le Installation e gli Stand-Up, vinti rispettivamente da La camera insabbiata di Laurie Anderson e Hsin-Chien Huang e Arden’s Wake (Expanded) di Eugene YK Chung (sfortunatamente sono proprio due delle esperienze che mi sono perso).
Queste due sezioni, a differenza del Theatre, richiedevano invece una fruizione individuale.
Si trattava prevalentemente di istallazioni ed esperienze in cui il movimento che avevamo a disposizione andava oltre alla rotazione della testa a 360°, c’era infatti la possibilità di esplorare lo spazio in modo realmente immersivo e, di conseguenza, più videoludico.
Se da un lato quest’ultima potrebbe essere un’esperienza più interessante, dall’altro ci si allontana di molto dal concetto di Cinema, rischiando di ottenere un effetto opposto rispetto alle intenzioni.
Mi riferisco in particolare a The Last Goodbye di Gabo Arora e Ari Palitz, dove venivamo accompagnati all’interno del campo di concentramento di Majdanek da Pinchas Gutter, sopravvissuto all’Olocausto che torna per la prima volta nel luogo dove ha perso la madre e la sorella.
Dopo un’introduzione realizzata con un video a 360°, si entra nel campo, qui viene offerta la possibilità di muoversi ed esplorare i vari ambienti.
Paradossalmente questa opportunità in più rende tutto più lontano che vicino, depotenziando inesorabilmente un tema tanto forte quanto toccante.
Francesco Castelnuovo, giornalista di Sky che la scorsa edizione ho introdotto nel mondo della VR, mi ha esposto una riflessione davvero interessante: ciò che non funziona in questo nuovo linguaggio è la mancanza di “inquadrare”, ovvero di mettere dei limiti, di creare un distacco tra spettatore e “prodotto” in una sorta di patto non scritto. Nel momento in cui il patto viene a decadere, si lascia il fruitore spiazzato e distante dal contenuto.
Effettivamente ciò che funziona in una fruizione passiva è proprio l’aspetto voyeuristico; questo viene a mancare nel momento in cui viene richiesto di interagire, mentre ciò che lo spettatore vuole è proprio rimanere nel ruolo di osservatore.
Il ruolo da osservatore in qualche modo torna in Hver Sin Stilhed (Separate Silences) di David Wedel, istallazione dove lo spettatore viene fatto sdraiare su un lettino per interpretare un ragazzo o una ragazza (a seconda del lettino scelto) che rivive un momento di coma insieme alla sorella/fratello, collocato nel letto speculare.
La cosa interessante è che le sensazioni vissute dal protagonista/spettatore sono amplificate dai sensi del tatto e dell’olfatto, mentre si stimolano sincronicamente -attraverso il visore-, vista e udito: si sente l’infermiera che si siede sul lettino, il vento in un momento di flashback su una spiaggia e l’odore di una birra in un bar in un nuovo ricordo.
Un concetto davvero interessante.
In conclusione questa sezione mi ha lasciato molti spunti di riflessione:
la cosa evidente è che l'”effetto teletrasporto” è al momento l’esperienza più forte e più coinvolgente, esattamente come fu per i fratelli Lumiére girare il mondo filmando luoghi irraggiungibili dai più.
Un altro aspetto è che questo nuovo linguaggio non andrà sicuramente a scalzare linguaggio cinematografico, ma si creerà una sua identità e una sua grammatica, come ha fatto la televisione o il mondo del gaming.
Infine mi sento di dire che questa nuova frontiera dello storytelling non sarà facile da digerire dalla nostra generazione e dalle precedenti, ma sarà sicuramente compresa ed accettata dai nativi digitali.
Ad ogni modo questa bellissima esperienza mi ha lasciato con una grandissima voglia di esplorare e sperimentare, oltre ad avermi dato la possibilità di vedere tantissimi film, per cui ringrazio ancora una volta tutti i ragazzi di Corto Dorico ed in particolare Roberto, Filippo, Chiara, Angela, Emanuele ed Elisabetta.
In definitiva, Venezia è bella e ci vivrei durante il Festival.