L’orsetto Paddington, il cui nome deriva da una famosa stazione ferroviaria londinese, è stato il protagonista di numerosi libri per l’infanzia creati da Micheal Bond. Negli anni i libri hanno avuto un successo planetario e sono poi diventati un vendutissimo giocattolo di pezza dalle infinite fogge, con un vestiario estremamente variegato (piccolo trivia: il primo Paddington di peluche fu creato nel 1972 da Shirley e Eddie Clarkson come regalo per i figli Joanna e Jeremy…si, proprio QUEL Jeremy).
Il tenero plantigrado è stato poi al centro di numerose trasposizioni in altri media, fra cui serie animate e videogiochi didattici, fino ad arrivare finalmente sul grande schermo nel Natale del 2014 in una pellicola diretta e co-sceneggiata da Paul King. Pellicola alla quale, nel 2017, è seguito l’inevitabile sequel con lo stesso team creativo alle spalle.
Ora, sulla carta come potrebbe un film “per bambini” con protagonista un orso parlante in CGI far commuovere fino alle lacrime un nerd di 36 anni, 190 centimetri e un quintale abbondante di peso?
O ancora, come potrebbe un prodotto con le summenzionate caratteristiche e premesse essere indubbiamente uno dei film con il più alto valore umano e sentimentale visti dal sottoscritto negli ultimi anni?
Perché semplicemente i due film dedicati all’orsetto dalle buone maniere, sono due meravigliose ed intelligenti lezioni di vita.
La storia che si dipana nei due film di Paddington ci prende per mano (o per zampa) dall’inizio alla fine e ci porta in un mondo tremendamente simile al nostro dove, con le doverose metafore, il rischio per l’orsetto è quello di essere dimenticato o peggio, odiato da chi invece dovrebbe accoglierlo.
Il protagonista proviene dal “misterioso Perù” (perifrasi come un’altra per indicare un paese straniero del quale si conosce poco) e viene mandato a Londra dall’anziana zia dopo un evento traumatico.
Al collo del cucciolo viene messo un cartellino con scritto “Per favore, prendetevi cura di quest’orso” e gli viene detto di farsi trovare, armato solo del suo sorriso e della sua gentilezza, in una stazione dei treni londinese laddove anni prima, centinaia di altri bambini in fuga dall’orrore della Guerra, avevano trovato riparo e amore in case di perfetti sconosciuti.
La fiducia di Zia Lucy è incrollabile poiché “non avranno certo dimenticato come si tratta uno straniero”. Paddington viene quindi messo clandestinamente su una nave diretta verso le coste della Gran Bretagna, affronta un lungo e pericoloso viaggio nutrendosi della sola marmellata fornitagli dalla zia, – a questo punto il vostro “senso di metafora” dovrebbe già pizzicare all’impazzata-.
L’impatto con Londra però non è dei migliori. Paddington sulle prime trova solo indifferenza e solitudine, almeno fino a quando un’amorevole famiglia (i Brown), non lo accoglie in casa amandolo e proteggendolo come un figlio e salvandolo dalle grinfie di una sexy tassidermista, interpretata da Nicole Kidman (primo film).
Nel sequel ritroviamo Paddington ormai perfettamente inserito nelle dinamiche multietniche di un quartiere londinese dove, in breve tempo, riesce a farsi amare da chiunque, al punto da “salvare” dalla depressione uno dei personaggi (sequenza breve ma potentissima), tranne dal vicino di casa dei Brown che nel primo film ha aiutato il villain a mettere le mani sull’orsetto.
Un vicino intollerante, divorato dall’ansia e dalle paure più disparate ed immotivate che non ha mai accettato la diversità dell’orso, temendola ed elevandola a spauracchio in una sequenza di assurda e dolorosa attualità. Scopriamo infatti che il vicino ha una vera e propria “scala dell’allarme” che alza a seconda delle peripezie in cui Paddington è coinvolto…deve aver preso esempio da alcuni uomini politici.
Proprio in questa dicotomia si trova il fulcro del secondo film: il peloso protagonista è accusato di un crimine che non ha commesso e viene spedito in carcere sulla base di accuse non completamente fondate che hanno a che fare quasi unicamente con la sua “diversità” (la scena, fra impronte di zampine e tracce di marmellata, fa anche ridere ma vista col senno di poi è molto meno ridanciana).
Paddington, neanche a dirlo, trasforma la sua ordalia carceraria in uno spettacolo di gioia e redenzione anche per i più duri carcerati (macchiette stereotipate ovvio, ma è proprio quello di cui il film e la storia hanno bisogno) solo ed esclusivamente grazie alla sua intraprendenza e al suo buon cuore.
In breve tutto si risolve, il vero cattivo finisce dietro le sbarre (anche lì la redenzione arriva tramite una scena fra le più deliziosamente gay-camp che abbia mai visto) e tutto finisce al suo posto. Anche zia Lucy.
Nulla di rivoluzionario a livello di plot sia chiaro, anche se nella trama del secondo trova spazio una coraggiosa presa di posizione anti-Brexit che vi lascio il piacere di scoprire, in ogni caso non è della trama che dobbiamo parlare quanto del suo significato intrinseco.
Nel mondo che Paddington ci regala la gentilezza e l’accettazione vincono sulla paura, l’amore vince su tutto e, con grande intelligenza, senza mai nemmeno per un secondo scadere nello scontato, nel banale o nel “buonismo” (voi non avete idea di quanto cazzo detesti quel termine); piuttosto sfruttando appieno sia lo humor inglese che soluzioni visive a dir poco poetiche, come la meravigliosa scena della mongolfiera. E’ un mondo in cui vorrei che i miei figli, se mai ne avrò, potessero vivere.
Per questo ne raccomando caldamente la visione a chi fra di voi è già genitore. Portate i vostri bambini al cinema a vedere Paddington 2 e recuperate in qualsiasi modo il primo capitolo. Fate in modo che possano vedere che è possibile che l’amore e la gentilezza prevalgano sull’intolleranza e la paura, che è possibile accettare chi è diverso da noi senza temere la sua diversità ma anzi, riconoscendola per quello che è: una risorsa. Ad ogni modo sono sicuro che il film servirà più a voi che a loro, d’altronde i bambini queste cose le sanno già.
Grazie orsetto, sei un tesoro prezioso*.
VOTO: 9,5
*E comunque voglio ADESSO un crossover fra Paddington e Rocket Raccoon.