“Noialtri si è stati nella zona d’ombra larga, imperscrutabile, che s’estendeva tra un Militant A pompato nei centri sociali, monocorde e pure un po’ palloso ei Sottotono che imperversavano su emtivvì e giravano ad heavy rotation in ogni jukebox: e il testo de “La mia coccinella” era un bel diversivo underground da spiaccicare sulle pagine domenicali del diario, vuote, senza compiti.”
E’ questo l’incipit del secondo capitolo di “Katacrash”,(pronunciato per far rima con Fort Apache e non con cash, trash o flash) seconda uscita per la neo-nata collana BrainGnu a cura di Andrea Giannasi. Chi firma invece questo simpatico libretto è Fabrizio Gabrielli, laziale (di origine, ma non di fede) di Civitavecchia, che ha militato, nelle fila dell hip hop, col nipponico nome Tsunami Kobayashi a cavallo fra i due secoli.
La storia, semplice e ben scritta, ruota attorno a tre giovani virgulti di periferia ed alla loro passione per la doppia h che li condurrà attraverso un percorso di formazione. Nel mezzo, le prime passioni con conseguenti sconvolgimenti ormonali, copertine di Aelle ridotte a collezioni di filtri, il canale mirc #hiphopitalia, un Fabri Fibra con le polacchine, gli scazzi coi gabberini fasci e la prima esibizione live del gruppo.
Poco importa poi che questa avvenga alla sagra dei “facioli co le coteche” piùttosto che al 2thebeat.
L’importante è esserci.
“Ho vissuto l’hip hop soprattutto nel periodo compreso tra il ’98 ed il 2001. Quello è stato un periodo d’oro. Poi me ne sono allontanato, schifato da come la mia musica fosse diventata un disgustoso oggetto mainstream e dal cambiamento d’attitudine che c’era stato all’interno dell’intera scena.”
Quando identifichi il momento del katacrash dell’hip hop nazionale?
“Credo con l’uscita di 8 Mile.”
Non sei il primo che lo dice.
“Fino ad allora, almeno per me, l’hip hop era una cosa che coltivavi nel tuo piccolo, era quindi inattaccabile dal mondo esterno. Poi ci sono state cose come Eminem a Sanremo ed io ho sentito come un infantile senso di gelosia, per quel mio piccolo mondo che in qualche modo non era più solo mio. Credo che il cambio di distribuzione sia stata la chiave di tutto: prima per far sentire un tuo pezzo dovevi registrare un mixtape e poi andartelo a smazzare a giro. Adesso è cambiato tutto, compresa la perdita del senso di curiosità. Prima i dischi te li dovevi andare a cercare, dovevi trovare qualcuno che ti prestasse Aelle o cose del genere. Ora manca un qualcosa che faccia da filtro, succede in tutti i campi, anche nell’editoria. Il mercato è saturo, è l’effetto distruttivo della cultura istantanea.”
Infatti tu nel libro usi spesso la parola “noi”.
“Si, mi piaceva ricreare quel senso comunitario che poi è andato perduto. Quel sentimento da grande famiglia. Pensa che io mi sono traferito a Civitavecchia nel ’99 e lì il substrato culturale era quello degli Articolo 31 o, al massimo, “Restafestagangsta” dei Flaminio Maphia. Ma fu proprio in quel periodo che mi misi a fare cose mie, col mio collettivo Kamikaze Sur Tirreno. (brevissima bio: due dischi autoprodotti e varie collabos con Feat Prod, el Ruvido e Maicol Caciara).”
Nasce da lì l’idea per Katacrash?
“Beh si, pensa che il libro, in gestazione da nove anni, è andato incontro a ben 8 ristesure. Sono dovuto scendere a patti con la storia e, quindi, con me stesso. Il libro segue il classico percorso di un romanzo di formazione dai toni adolescenziali: la storia non è didascalica ma fornisce una chiave di lettura. Chiave di lettura che, col susseguirsi del processo di riscrittura è diventata via via più nitida e ponderata piùttosto che ombelicale e di pancia.”
Quanto c’è di te nel libro?
“Per citare Milan Kundera “quando scriviamo non possiamo non scrivere di noi stessi”. Mi piace questa cosa di metatestualità: quando ho iniziato a scrivere il libro i presupposti non erano quelli di un’autobiografia anche se nel profondo probabilmente lo erano.”
Come hai scoperto l’hip hop?
“Ero in treno, da Milano a Roma. Il tipo che portava il caffè mi vide coi pantaloni larghi e mi regalò una copia di Aelle. In copertina c’era Lauryn Hill.”
Nel corso della presentazione fiorentina del tuo libro presso la libreria Brac, il tuo editore parlò dello svilimento del linguaggio avvenuto nella società italiana. Come vedi la cosa in ambito hip hop?
“Premessa: non seguo molto l’hip hop italiano recentemente. Il punto è questo: si tende a pensare che una cultura di strada debba necessariamente essere “colorita” e forse è vero. Ma anche il linguaggio “basso” è studiato in palestra.. a me ad esempio viene in mente il Lunfardo, il linguaggio creativo degli italiani in Argentina. Mi è sempre piaciuta la ricchezza di linguaggio, quindi volevo scrivere un libro come questo che non scivolasse però nel macchiettistico. E’ necessario mantenere una dignità letteraria per essere forti, vitali, creativi. Non serve imbarbarirsi.”
Come promuovi Katacrash?
“Faccio dei reading a giro per l’Italia, in cui sono affiancato da un campionatore ed un contrabbasso che sostengono la lettura e le parole. C’è sempre bisogno del bum-cha.”
Katacrash, collana BrainGnu per Prospettiva Editrice, 180 pp, 13 euro.
La copertina del libro è di Marco Zamora.
Esiste anche una limited edition con mixtape allegato.. nel caso nono siate tra i fortunati in grado di trovarlo potete comunque scaricarlo gratuitamente qui (http://www.megaupload.com/?d=7PUWYKGZ )
Top 5 di Fabrizio Gabrielli in puro Local Heroes Style!
- Wu Tang e Cappadonna
- Mobb Deep
- EPMD
- Common
- Neffa