Una stanza bianca.
Una stanza nera.
L’essenza del vuoto che invade il campo e purifica lo spazio, come una tazza di tè per una cerimoniere, come un tempio per un buddista, come un palco per un attore no.
L’attenzione per il dettaglio, per le piccole cose.
La delicatezza nello svolgere un movimento, la ritualità per creare un gesto, l’atmosfera quasi onirica nel produrre arte.
Yuri Tartari Pucci non ha realizzato video, ma piuttosto ha composto haiku.
In pochi minuti ha concentrato e fatto dialogare tra loro tre arti: un’influenza reciproca tra Oriente e Occidente, accostando uno sho-do occidentalizzato, un kata dell’arte senza-armi del karate e una sinfonia di corde.
Tramite la vista, il suono e il movimento, il produttore video milanese ha amalgamato diverse strade per farle confluire in un unico canale di sensazioni in cui ogni arte si rispecchia nell’altra.
Yuri Tartari Pucci descrive così il suo progetto: “Ogni gesto del Maestro ha un senso nella sua efficacia. L’intenzione e la consapevolezza del combattimento ne rendono la bellezza e la ricchezza culturale che è nascosta in ogni nervo teso, in ogni muscolo contratto, nell’idea che trasmette. Così come ogni tasto premuto dal pianista è la diretta prosecuzione dell’idea che vuole trasmettere e la forza impressa sul pennello dal calligrafo è esattamente quella necessaria per disegnare la linea che ha in mente”.
La nota del compositore Cesare Picco incita il gesto del sensei Dario Marchini; l’atto si completa con il pennello di Luca Barcellona, l’inchiostro traccia l’essenza della perfezione.
La rappresentazione della mancanza.
Luca Barcellona, calligrafo, concentra il proprio pensiero per realizzarlo nell’azione, che consiste in un momento, l’attimo in cui muove il braccio, tracciando un segno, rapido, concentrato nella potenza del colore nero su una superficie che non-è.
Allo stesso tempo, il karateka Dario Marchini controlla il calcio, il pugno, che si nutre del medesimo concetto di precisione e irruenza che è misurata per sconfiggere un nemico che non c’è.
Il compositore Cesare Picco accompagna con accordi netti e sonorità complesse; una nota nel vuoto, un suono che cade, come una goccia che si perde in un mare impetuoso: un’onda che si infrange nell’acqua e nonostante la potenza, si quieta armoniosamente per ricongiungersi silenziosamente al suo elemento.
E’ il concetto zen riportato su artisti occidentali, che tramite le loro mani sono riusciti a trasmettere un animismo sconosciuto alla nostra tradizione.
Hanno rappresentato il vuoto.
Sono riusciti a far percepire l’assenza.
Una lettera scritta su un vetro che non si vede, ma sicuramente esiste, senza manifestare la materialità della realtà, ma puntando sulla percezione di essa; senza specificare la durata, ma facendo apprendere la precarietà di essa; l’equilibrio che si stabilizza sulla negazione stessa di esso.
Il concetto zen di satori che consiste nello “scorgere la sintesi dell’affermazione e della negazione, nell’afferrare intuitivamente che l’essere è il divenire e il divenire è l’essere”.
La nota sostiene la mano del calligrafo, che conduce il piede del karateka, che sono nel momento dello svolgimento, scandendo un gesto dall’altro, limitandolo ad un momento ben definito e contemporaneamente armonizzandolo con quello seguente, facendo della loro arte una rappresentazione del divenire che è nel momento in cui è eseguita, ma che con un movimento raffinato, che con grazia si imprime e si perde rallentando in una voluta, viene lasciata nell’interrogativo della permanenza.
Come suggerisce l’ideatore Yuri Tartari Pucci: “La bellezza è il risultato”.
Si ringrazia Andrea Boscardin per il contributo fotografico.