“Dopo Il Lampo Bianco” (Agenzia X, 2012) è l’ultimo libro di Silvio Bernelli; un romanzo autobiografico ma profondamente diverso dai suoi precedenti.
La narrazione di Bernelli parte infatti questa volta da un evento traumatico, un tremendo incidente stradale di cui lo scrittore stesso è stato vittima durante un viaggio in Thailandia nel 2005.
Il romanzo narra le varie fasi che fanno seguito all’incidente e ricostruisce i percorsi materiali e mentali attraversati dal protagonista. In tale contesto ansie e paure si confrontano con stati della coscienza sperimentabili solo in situazioni estreme in un susseguirsi di preoccupazioni per il presente, dettagli di vita passata e considerazioni apparentemente fuori luogo nella situazione contingente.
La narrazione di Bernelli non si limita però al semplice racconto ma, e qui sta uno dei principali punti di forza del libro, mischia “letteratura e vita” grazie ad un lavoro di ricerca che mette la vicenda personale dell’autore a confronto di quella di altri scrittori ed esperti di varie discipline ritrovatisi a loro volta a cospetto di situazioni estreme. Bernelli si trova così spesso ad associare (e per molti versi a sostenere) la propria prospettiva personale con citazioni di autori che si sono trovati come lui a tu per tu con la morte o, quantomeno, con la percezione di una morte incombente.
Fra questi lo Stephen King di “Autobiografia di un Mestiere”, il John Krakauer di “Aria Sottile”, il Karl Kraus di “Detti e Contraddetti”, il Reinhold Meissner di “Orizzonti di Ghiaccio” … .
La presente intervista verte essenzialmente sul libro, ma ha inevitabilmente come sottofondo il filo rosso che mi lega all’intervistato e, se per questo, anche all’editore del libro (cioè Marco Philopat di Agenzia X). Tutti e tre, infatti, abbiamo fatto parte di quella fucina di idee e comportamenti che fu l’hardcore punk italiano della prima metà degli anni Ottanta.
Poco conta dire in questa sede che Bernelli è stato il bassista di Declino e Indigesti (del resto basta leggere il suo primo romanzo “I Ragazzi del Mucchio” per appurare i dettagli), molto più rilevante a mio avviso constatare come, a trent’anni di distanza, con Silvio come con Philopat, ci sentiamo ancora in qualche modo parte di una medesima famiglia: una famiglia che per un periodo ci ha accomunato e che ha avuto un grande peso formativo sulle cose che abbiamo fatto, detto, scritto o vissuto negli anni a seguire.
Presentami il libro:
“Dopo il Lampo Bianco” è l’autobiografia di un uomo che fa una lunga corsa in ambulanza verso un ospedale, dopo uno spaventoso incidente stradale. E’ la storia di un uomo che lotta per la vita ed è ciò che è realmente successo a me diversi anni fa in Thailandia. Ma è anche un raccolta di avventure ed esperienze sul legame tra letteratura e sopravvivenza, come quelle vissute da Stephen King, Joe Simpson, Jon Krakauer e alcuni altri autori. Sotto questo aspetto è una sorta di “compilation” di scrittori che hanno avuto – come me – il privilegio di correre sulla sottile, impalpabile linea di confine della vita, e la fortuna di restare al di qua di quel confine, e raccontare ciò che si vede, ciò che si prova. Ma in “Dopo il lampo bianco” non si parla di esperienze di pre-morte, visioni, eccetera. Il racconto mio e di tutti gli altri autori resta saldamente ancorato a questa terra, alle sensazioni che si provano qui, tra noi. L’altra cosa importante da puntualizzare è che tutte le esperienze vissute da altri scrittori e i diversi frammenti che costituiscono il libro sono tutti inseriti all’interno della vicenda vissuta da me. E’ grazie a questa tecnica che “Dopo il Lampo Bianco” ha il ritmo e la leggibilità di un romanzo.
Come hai raccolto le fonti?
Sono andato nelle biblioteche e su internet alla ricerca di vicende che per certi versi potevano essere simili alla mia. Con mia grande sorpresa però, ho scoperto che i libri autenticamente letterari dedicati al tema della scrittura e della sopravvivenza da eventi estremi erano molti pochi, ed erano quelli che conoscevo. “Aria Sottile” di Krakauer, “On Writing” di Stephen King eccetera. Allora ho lavorati su questi, arricchendo il racconto con saggi sulla sopravvivenza, la memoria, il recupero post traumatico. Mi sono stati utilissimi per raccontare fatti che sono difficilmente raccontabili di per sé.
Mi hanno molto colpito le tue riflessioni sul cortocircuito fra necessità del racconto e credibilità del racconto: Cosa vuoi dirmi a proposito?
Sai, il problema è che tanto per cominciare le parole stesse sono consumate. E’ difficile riuscire a trasmettere al lettore un’esperienza come il dolore, quando tutte le parole che lo descrivono, pensa soltanto al “dolore atroce” usato da Paolo Villaggio nei libri nei film di Fantozzi, sono depotenziate, poco credibili, sono parole che nel tempo hanno perso il loro valore. E poi esiste il problema stesso del racconto che in certi contesti rende comprensibile, normalizza, giustifica persino l’incomprensibile. E’ il dilemma con il quale si sono trovati a che fare i numerosi autori che hanno raccontato la Shoah. Come raccontare ciò che sul piano umano non è raccontabile? Alla fine credo che solo la qualità letteraria sia in grado di “salvare” sul piano etico una narrazione di carattere “estremo”. Infatti alla fine, per rimanere all’esempio della letteratura concentrazionaria (che in “Dopo il Lampo Bianco” non ho inserito proprio per le sue caratteristiche di eccezionalità, per rispetto verso le vittime) quella che rimane oggi è – tra non molte altre – la gigantesca, immensa opera di Primo Levi, l’autore di quello che probabilmente resterà “Il Libro del 900” e cioè “Se Questo è un Uomo”. Altre testimonianze dei lager, importantissime sul piano umano, sociale e politico, ma meno interessanti sul piano meramente letterario, non resteranno, spariranno nel tempo. La qualità letteraria è l’unica via d’uscita al cortocircuito innescato tra la necessità del racconto e la sua reale efficacia. Solo la letteratura può risolvere un problema creato da lei stessa.
Come si fa a nobilitare un’autobiografia dal punto di vista letterario?
Raccontandola come un romanzo, curando le entrate e le uscita di scena dei personaggi, che poi sono persone in carne e ossa che meritano un rispetto particolare, che a un personaggio inventato non si dedicherebbe. E poi con la scrittura. Che per storie così dev’essere spietata, deve saper chiamare le cose con il loro nome, ma anche raffinata, letteraria. Altrimenti tutto resta sul piano del ricordo o della cronaca. Senza la prospettiva, l’orizzonte, lo sfondamento letterario tipico del romanzo, il racconto resta attaccato alla pagina, e lì rimane. Non riesce a dirci nulla di noi, può commuoverci ma non ci impressiona davvero, non ci segna. Proprio come succede quando si legge la maggioranza delle autonarrazioni.
A un certo punto del romanzo scrivi di aver cancellato il file del libro che stavi scrivendo prima dell’incidente e di aver buttato nel cestino il manoscritto. Hai davvero rottamato tutto ciò che hai scritto prima del “Lampo Bianco”?
Sì. Ho buttato via il romanzo che stavo scrivendo. Era inutile. Vediamo ora cosa mi verrà voglia di scrivere in futuro. Sono curioso anch’io di sapere cosa sarà.
Com’è stato lavorare con una piccola casa editrice come Agenzia X? Che differenza hai trovato rispetto alle case editrici più note e presumibilmente anche più ricche con cui avevi lavorato in precedenza?
È stata un’esperienza interessante, anche se tutto è molto più difficile. Molte testate neanche ti considerano se pubblichi per una casa editrice piccolissima, e per di più con una fama di militanza come Agenzia X. Ma comunque “”Dopo il Lampo Bianco” è arrivato persino sulle pagine del Corriere della Sera con una recensione molto favorevole, dove neanche il mio primo romanzo “I Ragazzi del Mucchio”, che ha venduto molto di più di quest’ultimo, era arrivato. È un’avventura che ripeterei.
Quanto resta di te del musicista/protagonista dei “Ragazzi del Mucchio”?
E’ sempre difficile parlare di se stessi, bisognerebbe lasciare ad altri questo giudizio. Ma sforzandomi di rispondere lo stesso a questa domanda, posso dire che sono certamente cambiato parecchio come persona, anche se credo che dentro di me sia rimasto molto del ragazzo che sono stato; ad esempio la curiosità, la voglia di sperimentare, l’autodisciplina, la passione e l’orgoglio con cui si fanno le cose. Poi certo, i tempi e gli ambienti sono parecchio cambiati. Ma riuscire a invecchiare senza perdere queste tre o quattro caratteristiche fondamentali mi sembra già un bel risultato, no?
La parola “cicatrice” resta la tua preferita?
È la voce che ho scritto anni fa per il “Dizionario Affettivo della Lingua Italiana” pubblicata da Fandango. Sì, è ancora una parola meravigliosa. Per come risuona in bocca con tutte quelle c, e per il significato di esperienza e di tempo, di “prima” e “dopo” che ha. Due valori che da soli bastano a combattere la stoltezza e il vuoto di questi tempi. Se ci pensi, sono la medesima stoltezza e il medesimo vuoto contro i quali combattevo come paroliere e musicista.
Per contattarti?
Ho da poco aperto una pagina facebook che si chiama proprio “Dopo il Lampo Bianco” dove sono reperibili interviste, foto, recensioni del libro e anche la voce “cicatrice” del “Dizionario Affettivo” di cui si parlava poco fa. Vi invito a visitarla!