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DI NIETZSCHE E DI PADRI, DI PROCIONI E DI ALBERI – P.3



-PARTE UNO-

-PARTE DUE-

Come detto nella chiusura della scorsa puntata, oggi ci occuperemo -sempre nell’ottica della “questione paterna del MCU” – della più stramba, squilibrata, adorabile famiglia allargata del Marvel Cinematic Universe:

I Guardiani della Galassia

PETER QUILL

Da dove iniziare? La copia sgamuffa ed irresistibile di Indiana Jones è un altro -come Thor- che ha per tutta la vita dovuto combattere con figure paterne nella migliore delle ipotesi altalenanti, nella peggiore invece, pregne di quella simpaticissima follia divina ed assassina che ti migliora la giornata e ti ammazza la mamma.
Dall’infanzia/adolescenza passata a cercare di non farsi mangiare dai Ravagers di Yondu, fino alla scoperta dell’esistenza del padre Ego, un folle Celestiale megalomane che desidera unicamente modificare la struttura stessa dell’Universo a sua immagine e somiglianza, Quill non fa altro che passare -almeno sulla carta, per quanto riguarda il povero Yondu- da un pessimo padre all’altro.
Trova un equilibrio (sgamuffo quanto lui) quando accoglie dentro di sé la verità a lungo auto-negata a proposito di Yondu, perdendolo però tragicamente nel processo, proprio come accaduto -anche se in altri termini- a Steve Rogers.
A sua volta Peter, come tutti gli altri Guardiani a vario titolo, aggiunge qualche traballante mattoncino al suo equilibrio psichico quando accetta di divenire parte integrante di una sua famiglia allargata.
Famiglia che non a caso ha al suo interno, come punto focale delle attenzioni, un “bambino” in perenne pericolo: Baby Groot.
Quill trova anche l’amore, la stabilità affettiva adulta, con Gamora. Cosa che, in Infinity War, lo porterà a compiere scelte avventate ma perfettamente giustificabili (un bel dito medio da parte mia a tutti gli hater di Star-Lord) con l’umanità di cui tutti i personaggi Marvel sono portatori sani.

GAMORA/NEBULA

Qui in cazzi si fanno amari, se possibile ancora più amari di quelli affrontati da Quill nello scontro generazionale col padre Celestiale folle.
Gamora e Nebula sono, purtroppo per loro, figlie adottive di Thanos.
Già solo questo basterebbe a chiudere il capitolo a loro dedicato.
Ma volendo farci del male, andiamo ad eviscerare con un poco più di attenzione la loro situazione.
Addestrate ed indottrinate sin dalla tenera età all’omicidio e alla prevaricazione del debole, le due sorelline in technicolor, nel processo imposto dal padre, ledono apparentemente in modo irreversibile (almeno all’inizio) anche il loro rapporto.
Perdono la loro umanità, a più livelli sia fisici che etici, con Nebula esempio vivente e didascalico di questa perdita (quando la incontriamo, e per il resto della sua permanenza sugli schermi, è più una macchina che una persona) e Gamora vittima delle azioni del suo passato, azioni delle quali si è ampiamente pentita e che vorrebbe dimenticare, anche morendo.
In Infinity War le conseguenze di questo traumatico passato paterno giungono a due climax ben distinti sia per impatto visivo che emotivo.
Nebula viene dal padre torturata barbaramente, sfruttando la suddetta meccanizzazione e disumanizzazione, oltre che umiliata ed usata come ricatto vivente per ottenere informazioni dalla sorella verdognola.
Che, a sua volta, è vittima di una sorte ancora peggiore: quella morte agognata nel primo capitolo delle avventure soliste dei Guardiani ma giunta, ora, per mano proprio di quel centro di gravità etica ed affettiva che per lei è stato -nel bene e, soprattutto, nel male- Thanos.
Gamora cade vittima dell’amore, un amore distorto e pazzo, ok, ma un amore purissimo e nobile.
Paradossalmente ad ucciderla è proprio quell’unico lato di Thanos che, per tutta la vita, è rimasto celato alle due ragazze, danneggiandole in modi inimmaginabili.

ROCKET RACCOON

Povera, adorabile, irresistibile, psicopatica palla di pelo.
La situazione famigliare di Rocket viene ampiamente esplicitata, senza mezzi termini e senza passare attraverso troppe metafore, in Vol.1 e Vol.2, giungendo poi ad un rapidissimo ma straziante climax nello shockante finale di Infinity War.
Nato semplice procione, ingegnerizzato per tramutarsi in essere senziente e bipede, Rocket non ha mai conosciuto nemmeno cosa significhi avere una famiglia, un padre o una madre.
Cresce divorato da quel vuoto, come puntualmente fattogli notare da Yondu in Vol.2, rifiutando qualsiasi rapporto affettivo -con la sola eccezione di Groot- a priori, prima di conoscere Peter e gli altri.
In questa sua perenne mancanza, in questo suo ineluttabile vuoto, Rocket diviene il contraltare di Quill all’interno della disfunzionale famiglia Guardianesca, una sorta di fratello ribelle costantemente in bilico fra la ricerca di riconoscimento affettivo ed il rifiuto di tale risultato.
Rocket però cresce, riconosce i suoi limiti ed accetta un ruolo che non ha mai conosciuto prima: quello di padre, bruciando le tappe per amore del “figlioccio adottivo” Groot, in versione baby e, poi, adolescente.
James Gunn ha esplicitato tale rapporto poche settimane fa quando, stuzzicato da un tweet di un fan che gli chiedeva il significato di quell’ultimo “I am Groot” pronunciato dall’albero morente, il regista-punk di Louisville ha ammesso che quelle parole avevano un significato foriero di imbarazzanti lacrime versate da un trentaseienne di quasi 190 cm e 110 kg mentre si trovava sul posto di lavoro.
Groot, morendo, dice a Rocket, semplicemente, “Papà”.
Dannato genio coi capelli perennemente spettinati.

DRAX

Il sorprendente personaggio portato sul grande schermo dall’ex wrestler Dave Bautista rientra, per forza di cose, nella categoria finora poco affrontata -se non nel caso di Clint Barton- dei personaggi che non hanno problemi paterni…perché, semplicemente, sono loro stessi dei padri.
Quello che sulla carta servirebbe unicamente da powerhouse&comic relief diventa, grazie alla bravura di Gunn come autore oltre che come regista, un personaggio dotato di un profondo dramma umano.
Nella scena “degli adulti in piedi come imbecilli a formare un cerchio” del primo film, assaggiamo i prodromi di questa inaspettata trasformazione quando, per primo, Drax accetta di fare parte del piano suicida di Quill per fermare Ronan.
Il bestione che non capisce le metafore comunica a tutti la sua scelta specificando che, morendo, finalmente potrà rivedere sua moglie e sua figlia.
Una sola frase, potente e concisa oltre che sorprendentemente seria soprattutto se pronunciata quello che, fino a quel momento, aveva costantemente fatto la figura del coglione, riesce a farci provare anche se solo per un attimo, l’infinito dolore di un genitore che si vede strappare un figlio. Un dolore che porta chi lo prova ad accettare di buon grado anche la morte, se questa porta con sé la speranza di rivedere chi non c’è più.
Quel momento viene poi ampliato (emotivamente ma non, scelta geniale, quantitativamente) da una seconda frase pronunciata dal colosso tatuato in Vol.2.
Davanti ai laghi del pianeta di Ego, dopo un esilarante scambio di battute con Mantis, Drax dice all’antennuta sexy aliena che lei le ricorda la figlia morta, non per il suo aspetto, ma per la sua purissima innocenza.
Al tocco empatico di Mantis poi, quest’ultima, si lascia andare ad un pianto disperato, rivelandoci chiaramente e per la prima volta il bagaglio incalcolabile di dolore che Drax si porta appresso, al netto di battute cretine sul pisello di Ego o sulla dimensione dei suoi stronzi.
Alla faccia del comic relief.

GROOT

Complicato parlare di Groot in relazione alle dinamiche famigliari e paterne all’interno del franchise Marvel.
L’albero alieno è, nelle sue varie età e versioni, in costante ma calcolatissimo bilico fra la divinità e la stupidità ingenua e pura.
Quando lo incontriamo non è nulla più che un enforcer del ben più sgamato Rocket ma, man mano che il primo film entra nel vivo, scopriamo lati di lui che lo elevano ben al di sopra della moralità sghemba espressa dai suoi compagni d’arme.
Metafora stessa della Vita (e in questo, nell’ambito delle speranze per il quarto Avengers, perfetto contraltare ipotetico di Thanos) e dell’abbraccio salvifico di una famiglia, è Groot a regalarci la frase forse più famosa e commovente dell’intera epopea di Feige e soci.
Quel “We Are Groot” che ormai ripetono incessantemente a mezzo social anche i sassi, significa molto di più di quanto a prima vista possa sembrare.
In un mondo di padri pessimi o assenti, Groot è qualcosa di talmente “altro” e “alto” che la sua semplice esistenza fornisce protezione alle persone amate.
La protezione paterna che in molti, nei film Marvel, ricercano e non trovano. Un abbraccio inscindibile anche nella morte.
Rinascendo poi, Groot diventa come detto il centro nevralgico della famiglia allargata spaziale di Quill&co., andando a riempire un secondo vuoto emotivo: quello del figlio bisognoso di cure e protezione e permettendo ad un gruppo di figli lasciati allo sbando, di esercitare quell’amore paterno che a loro è stato a lungo negato.

Come già detto in precedenza, mica male per una serie di film che, nelle parole di qualche scoreggione presuntuoso, sono niente più che “un genocidio culturale”.
Ciucciati il calzino Inarritu.

Appuntamento alla prossima puntata, nella quale parleremo di Thanos, Yondu e Natasha Romanoff (e di Parker mi sa).