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HA LAVATO I PANNI IN ARNO
ARTS

Warios: Evolution and Roots



Lo scorso week end sono tornate in scena le Personali di Graffiti Zero, il progetto che dal 2013 organizza mostre ed eventi con i protagonisti del writing romano; ripercorrendo la scena dei graffiti capitolina dalla golden age degli anni ’90 fino a oggi. Ebbene sì graffitari, la scena è ancora viva.

Dopo la volta di writers come Kiv, Bone, Pepsy, Bol, Mister Thoms e Syla, il settimo appuntamento ha visto come protagonista Warios; noto graffiti-writer attivo a Roma dal 1998 nella crew VT e ora grafico e artista visivo apprezzato in tutto il mondo.

Lo abbiamo incontrato e ci ha raccontato il suo percorso artistico dagli esordi. Da quando era un pischello di periferia che guardava al mondo del graffiti con rispetto e ammirazione, arrivando al  suo attuale lavoro di grafico e alle mostre in giro per il mondo.

Tenetevi pronti perché qui si parla di cose serie, di graffiti e di chi ancora si sbatte con gli spray in mano.

  

Parlaci dei tuoi inizi, raccontaci in breve la tua storia.

Ho 33 anni. Ho iniziato a scrivere quando avevo circa tredici anni, alle scuole medie; facevo le tag con i miei amici di quartiere, che più che quartiere era un paese, Fiano Romano. Sono cresciuto quindi in una realtà di provincia, in una situazione paesana diciamo; ma che era comunque vicino Roma e una certa influenza si sentiva già. Il mio approccio iniziale con i graffiti, quindi, è stato con i ragazzi della mia zona, dove c’era già un crew attivo, il VT. Erano tutti più grandi di me, diciottenni o giù di lì. Dopo circa un anno, quando avevo circa quattordici anni, mi hanno accettato e sono entrato a far parte del crew. Quando ho cominciato a dipingere cercavo sempre di fare pezzi un po’ complessi. Gli altri  si concentravano di più sulle tag, sul bombing. Io mi distinguevo perché ero quello a cui piaceva di più il disegno.

Ho iniziato a usare matite e colori che ero piccolissimo, neanche ricordo a che età, ho avuto sempre questa passione. I miei genitori sono persone abbastanza creative, mio padre è un fotografo e mia madre ha sempre avuto i suoi interessi; sono sempre stato stimolato culturalmente e anche musicalmente in famiglia. In più ho avuto la fortuna di avere accanto degli amici che mi hanno trasmesso la passione per i graffiti; che è sempre stata la nostra via di fuga dalla realtà di paese in cui vivevamo.

Quando poi sono andato al liceo artistico a Roma, a piazza Mancini, ho conosciuto tantissimi writers. Ricordo le occupazioni, le autogestioni, i graffiti, le nottate in giro per la città: quella è stata la mia golden age. Roma in quegli anni era bellissima, perfetta direi. Stiamo parlando dell’inizio del 2000, l’età d’oro del writing romano. In quel periodo avevo continui stimoli, la situazione era molto variegata, vedevo pezzi bellissimi e altri meno, ma io ho sempre cercato di mantenere il mio stile.

Qualcuno mi prendeva per il culo perché ero preciso e mi dicevano che avevo uno stile ‘milanese’. A Milano si facevano pezzi più wild style che a Roma, e allora io rosicavo e insistevo di più in quello che mi riusciva meglio. Ho sempre scelto liberamente e non mi sono fatto influenzare da nessuno. Non sono mai stato un tipo da tag e basta. Quando disegnavo per strada stavo ore a rifinire i miei pezzi, e anche se non sono mai stato un bomber vero e proprio, questa cosa ha fatto uscire il mio nome. Successivamente, crescendo, ho dedicato molto tempo alla ricerca della lettera come pratica costante.

Mi sono avvicinato alla calligrafia e, nel tempo, ho abbandonato il disegno vero e proprio, come i ritratti o i paesaggi; non ero molto capace e non riuscivo a raggiungere il livello che volevo, mentre con le lettere ho capito che potevo diventare uno bravo. Anche i miei amici me lo dicevano; il lettering mi dava sempre uno stimolo in più e pensavo che se mi fossi impegnato realmente potevo raggiungere dei traguardi. Vedendo i progressi che facevo e i primi risultati, ho cominciato a interessarmi realmente a questo stile, fino a quando i miei graffiti sono iniziati a cambiare. Mi sono appassionato anche al lettering del mondo del tatuaggio, come il chicano e lo stile della west coast: mi piace tantissimo e penso che si veda nei miei lavori.

Quindi ho studiato sempre di più e mi sono focalizzato anche sulle grafie antiche, come il gotico e le sue varie declinazioni. Ho iniziato anche a insegnare, mi arrivavano richieste di gestire dei workshop: all’inizio non mi sentivo in grado, e invece adesso sto facendo un tour proprio di workshop.

Ma tutto questo è venuto dopo, all’inizio mi sono concentrato con dedizione e impegno soprattutto sullo studio e la pratica della lettera, costantemente.

Quando parli di studio e di ricerca, in quegli anni che non c’erano né Instagram e né i social network, come trovavi le informazioni che ti servivano? Seguivi le riviste e le fanzines di allora oppure quando hai iniziato c’era già Internet?

Quando ho iniziato a interessarmi di queste cose c’era il 56k, avevo questo cavo lunghissimo che passava per tutta la casa, per scaricare delle foto ci mettevo giorni interi. Ricordo che collezionavo immagini di graffiti e le dividevo in diverse cartelle. Per mia fortuna ho avuto dei grandi maestri vicino a me, che già nei primi anni di liceo mi passavano informazioni su writers validi. I miei amici, i membri del VT, erano già molto informati attraverso varie fanzines come Aelle (AL), documentari come Style Wars, ma noi eravamo poco americanizzati e molto Italy.

Puoi dirmi qualche nome fondamentale per il tuo percorso artistico? Chi è che ti ha più ispirato?

Per me è e sarà sempre il Kemh, non c’è storia, è l’artista che nell’ambito dei graffiti mi ha comunicato maggiormente. Quando da ragazzino andavo in giro e vedevo i suoi pezzi, mi facevano molta più impressione di quello che potevo trovare su internet. Poi per me è un amico e una persona con la quale ho avuto la fortuna di lavorare, è stato il mio master.

Quando lo incontravo a una serata in giro, immagazzinavo le sue frasi e ne facevo tesoro, e penso che ora ci sia una stima reciproca tra di noi. Ho ancora le foto che ho fatto quando avevo 12 anni, prendevo l’autobus con i miei amici da Fiano romano fino a Roma Tiburtina. Era il 1998, quando fecero la famosa jam romana in cui c’era la murata del Kemh con il predator e la scritta “polvere ritornerete” che purtroppo ora non c’è più. In quella jam c’erano la murata di Crash Kid, di Bol, Wany, …c’erano tutti. Per me quella jam fu memorabile.

Il Kemh per me è stato un simbolo dei graffiti come piacevano a me, aggressivi, con le lettere non forzatamente trash, fatte velocemente ma pulite. Un altro che stimo molto è il Poison. Stiamo parlando di pietre miliari del writing romano, come anche il Napal (Naps). Personalemente, prima di tutto c’è stata Roma, poi sono venuti gli artisti americani come Seen, Skeme, Zephir.

Quando guardavo Wild Style o Style Wars, non ricordo bene, vedevo con attenzione Seen e non il Cap, mandavo indietro le scene per vedere come usava gli spray, invece chi era appassionato di bombing guardava più come facevano i throw up. Io invece mi sono sempre concentrato sulle lettere complesse, illeggibili, gli incastri, i loop, le frecce.. ho sempre aggiunto tanto. Poi invece sono andato un po’ a ritroso, a cercare di più l’essenza della lettera e a studiare le forme.

Hai ridotto anche l’uso dei colori mi sembra.

Si, mi sono ridimensionato. Per me usare troppi colori era diventato noioso. Nelle jam ti danno a disposizione decine di colori da scegliere, ne hai talmente tanti che ti ritrovi a fare questi pezzi color arcobaleno, quando alla fine i miei colori di base e quelli che uso di più sono il nero, il bianco, l’argento e il rosso, quindi crescendo ho ridotto l’uso dei colori e sono arrivato a usarne molti di meno.

Comunque, in generale, se guardo indietro mi rendo conto che per me i graffiti sono stati tutto. Racchiudono l’adolescenza, le amicizie, le ragazze e i primi amori. È uno stile di vita vero e proprio, sono stato fortunato a crescere in un paese piccolo come Fiano dove pero c’erano quattro writers che mi hanno indicato la strada, diciamo cosi.

Da piccolo usavo molto il videoregistratore, registrato intere puntate di trasmissioni che parlavano di hip hop: si vedevano dei crew che facevano break dance, scratch e cose simili…sono stato sempre affascinato da questo mondo, rimandavo indietro le parti in cui si vedevano i graffiti. E ho provato a fare di tutto, cantare, ballare, ma poi ho capito che ero negato e mi sono concentrato solo sul disegno.

Già in prima media avevo il primo crew, poi il secondo e infine il VT, quando già ero un po’ più grandicello. Ho conservato quasi tutto e alla mostra di Graffiti Zero ho portato anche una tavola con la mia prima tag, oltre a dei lavori inediti che ho fatto quest’anno e molte altre opere. Però principalmente sono stati esposti quelli che per me sono i più significativi, anche se non necessariamente i più belli a livello artistico.

Nel tuo lavoro di grafico si vede l’influenza dei graffiti o tieni i due mondi separati?

Si vede eccome, e quando presento il mio portfolio per un nuovo lavoro l’ultima parte riguarda i graffiti. Inizialmente vi dedicavo poco spazio, poi crescendo ho cominciato a capire che facevano talmente parte della mia vita che non potevo tralasciare questo aspetto così importante di me stesso. Ho lavorato con tantissimi brand e, anche se il writing è stato criminalizzato e demonizzato, oggi anche i colletti bianchi apprezzano questa parte della mia vita, perché si rendono conto che ho un interesse e una passione forte che coltivo da anni. Non ho mai nascosto di essere un writer.

Cosa è rimasto uguale da quando hai iniziato a dipingere e cosa è cambiato nel tuo modo di lavorare?

Ho studiato le lettere e ho tolto il superfluo. Ho preso molto dalla scuola romana e dalla calligrafia, in cui la lettera deve essere leggibile. Per me i calligraffiti sono stati questo, finalmente mi sono sentito parte di qualcosa, e nel 2015 ho avuto la fortuna di incontrare sul mio cammino Shoe, questo writer artista olandese che ha “creato” i calligraffiti, cioè ha dato un nome a questo tipo di graffiti. Il suo nome intero è Niels Shoe Meulman e ha creato sul web un gruppo di calligraffiti artist mondiali. Io gli ho inviato delle mie foto e mi ha selezionato per fare dei lavori insieme. Questo incontro è stato una fortuna, perché mi ha dato una grande visibilità e mi ha dato l’opportunità di conoscere artisti di tutto il mondo.

Quali sono le mostre e i lavori più importanti che hai fatto?

In primis quella di quest’anno, che per me ha avuto un significato enorme perché è stata una personale, la Scriptorium a Berlino. È andata benissimo, ho avuto molto seguito, doveva durare due settimane e invece è stata prolungata per più di un mese. Altri lavori importanti sono stati  la mostra nel Design Institute di Seul, un’altra ad Amburgo con Shoe e altri artisti che nel mondo dei calligraffiti sono dei nomi conosciuti.

Inoltre ho collaborato con dei grossi brand come Fendi, in cui il concetto dei graffiti non si è snaturalizzato: abbiamo organizzato una jam sul tetto del Palazzo della Civiltà a Roma (sede di Fendi),  con otto writers e artisti romani. Dal 12 al 15 ottobre prossimo faremo una mostra, sempre a Palazzo Fendi, in cui ci saranno degli artisti che si esibiranno live e io ho curato l’immagine coordinata della mostra e la direzione artistica. Si può dire, insomma, che mi sono tolto belle soddisfazioni.

La moda trae ispirazione dall’arte di strada e la reinterpreta, prende ispirazione dalla pittura, dalle correnti letterarie e il fatto che il mondo del fashion abbia guardato al mondo dei graffiti e della street art non vuol dire necessariamente che si stia appropriando di un qualcosa di underground. Secondo me è anche un modo di legittimare il lavoro di tanti artisti che fino a poco tempo fa sono stati criminalizzati e visti come teppisti. Senza dubbio, le arti di una stessa epoca si influenzano a vicenda, sono espressioni figurative che si guardano e si intrecciano, come il design, la moda, la scenografia, il cinema,e le arti in genere.

Sono d’accordissimo con quello che hai detto. Mi piace molto il fashion, nel senso che mi piace l’idea di interpretare la moda, e quando trovo un brand che mi rispetta non vedo il motivo di dire di no a una collaborazione. Lo stesso succede per esempio nel rap, dove gli artisti citano Gucci o le grandi marche di moda nella loro canzoni. Ho studiato un po la storia dei graffiti e negli anni 70/80 Andy Warhol, Jean-Michel Basquiat e altri grandi artisti erano in contatto con writers che già facevano mostre, ma anche i treni a New York. Questi due mondi non erano separati, ma collaboravano parallelamente. Non c’era la paranoia di venire accusato di essere commerciale o di aver tradito l’origine underground dei graffiti.

Come hai scelto il tuo nome da artista? L’hai cambiato varie volte o è sempre rimasto lo stesso?

La scelta del mio nome è stata un po travagliata, ne ho cambiati tre all’incirca, ma sempre quando ero piccolo. Da adolescenti ci chiudevamo in casa a fare le tag sui fogli, non c’era questa moda di andare subito per strada, e giocavamo alla playstation. Sono arrivato al mio nome attuale quando ho trovato un mix di lettere che mi piaceva, ed è successo proprio giocando a Super Mario bros, dove c’era il personaggio di Wario. Non so perché, ma questo nome aveva una connessione di lettere che per me era perfetta. Non era tanto il nome in sé, ma il fatto che avesse sei lettere e a me piaceva fare dei pezzi grossi dove potevo creare tante cose. I miei primi graffiti, che purtroppo sono andati persi, avevano sempre moltissimi elementi, erano pieni di roba.

Ricordo i pezzi di Phase2, che stavo ore a guardare e mi chiedevo come facesse a creare delle cose cosi impressionanti, dove le lettere sparivano quasi. A me sono piaciuti sempre i writers come Revok, Retna, Saber. Da ragazzino mi facevano impazzire. Ho anche studiato e sono un feticista dei libri di questo genere. Ho capito il motivo per cui le gang in America scrivevano in quel modo; perché non dovevano farsi capire dalla polizia, era un alfabeto in codice per gli altri membri della gang per indicare dei posti che venivano usati come vie di fuga o per marcare il territorio. Sono appassionato da questa simbologia che è rappresentata, ancora una volta, solo dalle lettere.

Mentre beviamo un’altra birra e ci salutiamo, penso che questa chiacchierata si poteva concludere solo così; con la lettera, il vero filo conduttore del percorso artistico e lavorativo di Warios. L’elemento che l’ha fatto arrivare lontano ma sempre con un occhio rivolto indietro, verso le origini.

Foto di Federica Tafuro