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Taxi, falafel e posti di blocco: Io, turista, in Palestina e Israele



Dall’aeroporto di Tel Aviv è meglio prendere uno sharut, un taxi collettivo, perché il sabato, giorno di festa per gli ebrei, gli autobus non sono in funzione. Una volta arrivati a Gerusalemme, mentre si attraversa Meah Sharim, il quartiere degli ebrei ultra ortodossi, si notano alcuni signori con i boccoli sulle tempie che stanno sul ciglio della strada e gridano slogan religiosi. A volte potrebbero addirittura tirare delle pietre. Per invitare il tassista, ebreo egli stesso, a rispettare lo Shabbath, e quindi il precetto che impone ai fedeli più conservatori di non lavorare.

Gerusalemme è comunque bellissima. È un labirinto con gli archi di pietra, scale di pietra, tetti di pietra su cui camminare. Le pietre hanno vari toni di beige che si confondono con la luce del tramonto. Non lontano dalla Basilica del Santo Sepolcro, dove la nostra tradizione dice che Gesù sia morto, i bambini arabi corrono, giocano, coprendo con le loro grida quelle dei soldati ebrei, giovanissimi e giovanissime, con le uniformi verde oliva. I mercanti arabi contrattano con i turisti sul prezzo delle magliette. All’interno dello stesso negozio si vendono magliette con la bandiera palestinese e magliette con il logo dell’IDF (Israel Defense Forces) – per tutti i gusti, insomma. Il Muro del pianto e la spianata delle Moschee sono due luoghi talmente vicini, e talmente lontani, che sono difficili da raccontare. Nonostante siano confinanti l’uno con l’altro, per qualche inspiegabile fenomeno architettonico-militare, dall’uscita dell’uno non si riesce a vedere l’entrata dell’altro luogo sacro.

I falafel si trovano ovunque, i checkpoint pure. Assumono forme diverse di volta in volta. Alcuni checkpoint assomigliano ai posti di controllo dei bagagli a mano negli aeroporti, altri sembrano vecchie dogane. A nord, al confine con la Cisgiordania, ce n’è uno che sembra un capannone industriale trasformato in galera, dove si passa da uno stanzino all’altro, da un controllo passaporti all’altro. È un luogo metallico e deserto dove non si incontra quasi nessuno. Ci sono solo alcune soldatesse dall’aria serissima dietro ad un vetro, e più in là, su un mezzanino, un soldato annoiato con un fucilone enorme, stile videogioco spara-tutto. L’impressione è che nessuno dia davvero importanza ai passaporti. Si ha invece il sospetto che i veri lasciapassare siano la tensione e la perdita di tempo.

A Betlemme mi faceva ridere pensare che, nonostante fosse settembre, sembrava il giorno di Natale. È una cittadina dall’atmosfera tranquilla, rilassata, gioiosa, con molti turisti che si fotografano nella Chiesa della Natività, dentro alla grotta del bue e dell’asinello. Una cosa che mi ha colpito è che, appena si arriva, non si fa in tempo a scendere dall’autobus che si sente gridare: “Banksy, Banksy!”. Sono tassisti che ti vorrebbero portare a vedere le famose opere dello street artist inglese, quelle sul muro di cemento dell’occupazione. Devo dire che questo turismo macabro – il turismo della guerra, della sofferenza – mi ha irritato parecchio. Evidentemente molti turisti sono interessati alla cosa e questo ha dato vita a un piccolo business per i tassinari palestinesi.

Forse l’intenzione originale di Banksy era proprio questa: portare il muro stesso, insieme alle sue opere, agli occhi del pubblico. In questo senso la cosa ha avuto successo: trovarsi faccia a faccia con il muro fa capire molto dell’occupazione. Io il muro l’ho visto a Gerusalemme Est, durante la visita organizzata da un’associazione israeliana che lotta contro la demolizione delle case. Il muro è enorme, coperto dal filo spinato “intelligente” (in grado di segnalare le presenze vicine), con fondamenta a sezione triangolare, così che quando qualcuno cerca di scavare sotto, il muro stesso si inclina e segnala un’anomalia.

Il muro è lunghissimo, è ovunque, non segue il confine tra Israele e West Bank, ma devia anche all’interno dei Territori Palestinesi stessi. A volte impedisce il collegamento tra un villaggio e i suoi campi di olivi. A Gerusalemme separa l’università dalla città stessa. Io, personalmente, spero che un giorno quel maledetto muro cadrà, e se insieme ad esso verranno distrutte anche le opere di Banksy poco male. Forse è per questo che non ho voluto prendere il taxi per andare a guardare Banksy a Betlemme. Per non dare soddisfazione al muro. Per dire che se non ci fosse ci guadagneremmo tutti, tutta l’umanità. Mentre oggi con il muro ci guadagnano solo Banksy (un po’ di fama) e quei quattro tassisti (un po’ di spiccioli).

Hebron è una cittadina antichissima nei territori palestinesi, una delle mete più intense. A Hebron, nel ’94, un colono ebreo entrò in moschea e fece una strage con un fucile mitragliatore. Da quel giorno la città è stata completamente militarizzata. Adesso la moschea è divisa in due, metà moschea e metà sinagoga. Ci sono tre checkpoint per entrare, tre per uscire. La città vecchia di Hebron è tutta di pietra, costruita in un modo che sia sempre fresca e ben ventilata. Nella strada lunga e stretta che conduce alla moschea c’è il mercato dove ho visto le keffiyeh più belle. Mentre si cammina si ha un senso di prigionia: le vie d’uscita laterali sono tutte bloccate e in alto la strada è completamente coperta da una rete metallica, perché i coloni, che vivono ai piani superiori delle case, tirano pietre, immondizia, urina. È comune imbattersi in pattuglie di osservatori internazionali per i diritti umani o in torrette militari israeliane, la cui architettura stona un po’ in pieno centro storico.

Nel resto della Cisgiordania l’atmosfera è decisamente meno tesa. A Ramallah, Nablus, Jenin, le colonie israeliane sono costruite fuori dalle città, lontano dai centri abitati palestinesi. In tutti questi posti si vive il fascino del medio oriente. Si mangiano cibi buonissimi e, quando si cammina per la strada, i palestinesi ti salutano, ti danno il benvenuto, ti invitano a bere il caffè al cardamomo, raccontandoti le loro storie tristi. Tutti hanno un figlio maschio in carcere e un altro parente a cui hanno sparato. Le strade di collegamento tra le città sono nuove, i trasporti pubblici efficienti. I palestinesi lavorano e pagano le tasse. Sono molto pazienti. Soffrono l’occupazione militare. Sono arrabbiati ma non odiano. Uno loro stato sarebbe il minimo che si meritano.

Con i miei tre amici e compagni di viaggio siamo usciti dai Territori Palestinesi al nord, per andare a Nazareth, Shefa Amr, Akko, Haifa, e poi scendere verso Tel Aviv. Belle spiagge, belle ragazze, ma non abbiamo resistito molto. Dopo un giorno e mezzo a Tel Aviv abbiamo deciso di passare gli ultimi giorni a Gerusalemme. La cosa più bella per noi era sedersi in un caffè e “bere” un narghilè, perché così si dice in arabo.

Prima del volo di ritorno all’aeroporto Ben Gurion ti controllano ogni cosa, ti danno un codice di pericolosità, ti fanno domande e ti spediscono di qua e di la con una guardia al seguito. Per dirla in modo ironico è un aeroporto piuttosto singolare. Una situazione assurda. Kafkiana. E così, alla fine, si ritorna con molti ricordi e tante cose da raccontare. Questo viaggio mi ha aiutato a comprendere meglio certe logiche, certi meccanismi. Leggendo, spostandosi, parlando con le persone, ci si forma un’opinione molto più chiara, rispetto a quella che si può ricavare guardando solo la televisione.

 
Tutte le foto che illustrano questo articolo sono di Martino Gliozzi.