Domenica scorsa la Tunisia ha votato nelle prime elezioni veramente libere a memoria d’uomo. Altissima l’affuenza alle urne, con dozzine e dozzine di nuovi partiti in lizza per formare l’assemblea che dovrà stilare una nuova costituzione. Dai primi risultati non ufficiali si delinea una vittoria di Ennahda, un partito islamico che professa un’ideologia moderata (simile per molti versi a quella del governo oggi al potere in Turchia). Fra le elite urbane e laiche c’è chi guarda ad Ennahda con malcelato sospetto, temendo che possa far scivolare il paese verso la teocrazia. Ma lo spettacolo di una competizione elettorale tollerante e pacifica è sicuramente un esempio storico per tutto il mondo arabo oggi in tumulto.
Ne approfittiamo per pubblicare la testimonianza di un giovanissimo imprenditore italiano che ha vissuto in prima persona nelle strade di Tunisi la caduta del vecchio regime.
Il 14 gennaio 2011, nel primo pomeriggio, mi trovavo in aereo ed ero quasi l’unico passeggero. Ero appena stato a PittiUomo, a Firenze, e stavo tornando nel mio nuovo paese adottivo: la Tunisia… La Tunisia non è quel paese che la maggior parte dei turisti purtroppo crede di conoscere, dopo averci passato una vacanza a pacchetto a basso costo, dopo aver visitato i locali notturni di Hammamet e magari la tomba di Craxi, dopo aver scoperto l’insistenza dei venditori locali di souvenir. Io quella Tunisia la conosco poco, nonostante abbia già vissuto nel paese altre due volte, la prima nel 1998 e la secoda nel 2005, con una casa che aveva una terrazza con vista proprio sulla tomba di Craxi.
La vera Tunisia è fatta di luoghi magici ed unici. Ci sono antiche impronte lasciate dall’Impero romano, come Dougga, una cittadina del 600AC cosi ben conservata da lasciarti senza fiato (è infatti rimasta sepolta sottoterra per centinaia di anni), le mastodontiche Terme di Antonino, l’acquedotto romano anch’esso rimasto intatto, l’anfiteatro El Jem (che rispecchia la forma del Colosseo, ma in misura più piccola e in uno stato di conservazione molto migliore), e tanti altri siti storici, diversi dei quali classificati dall’Unesco come patrimonio dell’umanità.
Gli arabi poi hanno contribuito alla ricchezza culturale del paese, basti pensare alla città di Kairouan, uno dei centri musulmani più importanti del mondo, e alle varie Medine di Tunisi, Hammamet e Sfax. Ci tengo a ricordare anche le bellissime e pescose acque di Tabarka, l’isola dei polpi Kerkennah, il fascino del deserto del Sud con le sue oasi, il sole omnipresente… L’ultimo apprezzamento va al popolo tunisino, così diverso di quello che pensiamo di conoscere stando rinchiusi dentro agli hotel “all inclusive”, oppure leggendo la cronaca dei nostri quotidiani locali.
Quel 14 gennaio ero partito piuttosto ansioso. Da dicembre ero a conoscenza che nel paese c’era un clima di forte tensione, anche se in Tunisia queste informazioni venivano meticolosamente filtrate e censurate, però non su Facebook. Quella che poi sarebbe diventata la “rivoluzione del gelsomino” ha potuto espandersi a macchia d’olio, e raggiungere una massa critica di partecipazione, proprio grazie alle notizie, ai video e ai commenti che circolavano sempre più spesso sui social network, in contrasto con la stampa ufficiale, che non accennava in alcun modo all’enorme agitazione popolare. Per la prima volta il popolo aveva iniziato a parlare e sparlare del proprio governo, osando pronunciare in pubblico il nome del presidente Ben Ali e quello della moglie Leila Trabelsi.
A tale proposito mi ricordo un episodio del 1998. Mi trovavo vicino a casa mia, a Sidi Bou Said, e stavo parlando con un amico, che gestiva un minuscolo negozio di spezie sulla salita del paese di André Gide. Eravamo sulla scalinata del celebre Caffé Halia, detto Caffé Des Nattes, a sorseggiare un the alla menta con pinoli, quando iniziai a parlare di politica. Ero curioso di capire che opinione avesse il popolo tunisino del suo governo. Feci una sola domanda e in questa domanda inclusi il nome Ben Ali. Il mio amico sbiancò e si guardò intorno, per esser certo che nessuno mi avesse sentito, come se avessi detto o chiesto chissà cosa. Mi spiegò velocemente che in Tunisia non si poteva parlare del governo, e tanto meno del suo capo di stato, perché vi “erano orecchie dappertutto”. Io sorrisi, anche se non riuscivo a spiegarmi bene come un popolo, che ufficialmente viveva in una repubblica, potesse avere tante censure e tabù.
Nel corso del tempo, sotto a questo silenzio impaurito, rinchiuso dalla censura nell’equivalente di una pentola a pressione, si è però acceso un fuoco. Il popolo ha iniziato a sopportare sempre di meno la prepotenza e arroganza del capo del governo, e quella del clan dei fratelli della moglie, e la loro sfrontata ricchezza, in contrasto con un aumento drammatico della disoccupazione soprattutto fra i neo laureati. Quando il 17 dicembre 2010 un povero disgraziato si è bruciato vivo, per protestare contro le angherie della polizia di regime, quella pentola a pressione ha cominciato a fischiare sempre più forte, prima su Facebook e poi nelle strade. A gennaio, al momento delle mia partenza in aeroporto per Tunisi, la tensione era al massimo. C’erano stati troppi morti e troppi spari sulla folla. Il popolo non ne poteva più. E io stesso ero in pensiero.
Ero in pensiero non tanto per me (per niente!), quanto piuttosto per mia mamma in Italia (che nonostante mille lacrime e sms non era riuscita a convincermi a non partire), per la mia nuova società in Tunisia, e soprattutto per la salute della mia ragazza che lavorava all’ambasciata francese, in pieno centro di Tunisi, nel cuore delle manifestazioni. Ero infatti abituato ad accompagnarla in auto fino sotto l’ambasciata, ma in quei giorni l’esercito, oramai sceso in strada con i carriarmati, aveva messo molte recinzioni e vietato parecchie aeree agli autoveicoli, quindi scendevamo di macchina ed andavamo a piedi, qualche volta sentendo degli spari che non sapevamo dove localizzare.
Finalmente l’aereo atterrò. Iniziai subito a fare delle telefonate ad amici per avere le ultime notizie. Il giorno prima Ben Ali aveva fatto un discorso alla Tv, dicendo di aver compreso il popolo e le sue richieste, e promettendo che avrebbe sistemato tutto. Il popolo però non gli credette. E quel 14 gennaio costrinsero Ben Ali e la sua famiglia a fuggire. Io atterrai proprio in quel momento. Non capivo perché all’aeroporto c’era agitazione. Aspettai per due ore le mie valigie (forse un normale tempo medio d’attesa a Malpensa o Fiumicino, ma non a Tunisi) e la gente intorno a me era tutta al cellulare. Capii che era successo qualcosa di grosso. E mi fu comunicato che Ben Ali era fuggito.
Il caos era iniziato.
Da una parte c’era il popolo, sempre più in piazza a protestare contro tutto e tutti, dall’altra la polizia fedele a Ben Ali (lui stesso era stato un poliziotto), che sparava contro i manifestanti o cercava di creare caos per giustificare un ritorno al potere del dittatore. Il coprifuoco diventò più stretto e la vita in Tunisia si paralizzò. Niente piu ristoranti, supermercati, gente a giro. Ero tra i pochi che si azzardavano a circolare in macchina. Sicuramente uno dei pochissimi ad arrivare fino alla Avenue Bourguiba, di fronte l’ambasciata francese, in pieno centro di Tunisi, dove c’era solo l’esercito, qualche cecchino sui tetti (fedeli di Ben Ali) e qualche raffica di spari.
Se c’è un suono che ha fatto da colonna sonora alla rivoluzione è stato il rumore degli elicotteri dell’esercito, che si era schierato a difesa del popolo tunisino e dava la caccia ai poliziotti resistenti fedeli a Ben Ali. Spesso da quegli elicotteri e verso di loro si sparava. Io abitavo tra il palazzo del governo a Cartagine e il palazzo privato del presidente a Sidi Bou Said: avevo un elicottero fisso sulla testa, un po’ come la mitica nuvola di Fantozzi.
Una sera, ben oltre il coprifuoco, decisi di uscire di casa e di unirmi agli abitanti di Sidi Bou Said che ogni notte, come in tutti gli altri paesi e città della Tunisia, organizzavano una guardia contro i delinquenti e i poliziotti fedeli al vecchio regime. Si teneva d’occhio che nessuno circolasse in auto, che non vi fossero visi nuovi e sospetti in zona, che nessuno tentasse di saccheggiare le case. Quella notte abbattemmo i cartelli che celebravano l’ascesa al potere di Ben Ali, omni presenti in tutta la Tunisia, nonché le gigantografie dell’ex presidente. Mi sono tenuto qualche cimelio di quel momento.
La sera, dopo il coprifuoco, ci barricavamo di solito in casa. I delinquenti, in un paese senza più governo, leggi e poliziotti, saccheggiavano le case con facilità anche in pieno giorno, aggredivano e facevano di tutto. I fedeli del presidente avevano liberato dalle galere più di 15.000 detenuti, proprio per aumentare il caos generale e far rimpiangere la fuga di Ben Ali. In precedenza, infatti, la criminalità in Tunisia quasi non esisteva. Il regime era molto duro contro chi non rispettava le leggi, e ancora di più contro chi non rispettava gli stranieri, come italiani, francesi o tedeschi, che portavano aziende e lavoro.
Questo “interesse” delle autorità per l’imprenditoria straniera era però anche rischioso. Ricordo che poco prima di trasferirmi a vivere in Tunisia, scrissi un messaggio su un blog privato spiegando che stavo cercando contatti. Poche settimane dopo ricevetti una risposta. Il messaggio, scritto in un inglese scolastico da prima media, era un “welcome” in Tunisia e una richiesta di incontro. Era firmato Imed Trabelsi, il famoso e spietato fratello della moglie del presidente. Fortunatamente, prima di fissare un meeting, mi informai su chi era questo personaggio da alcuni amici, che mi sconsigliarono vivamente di incontrarlo e tanto meno di fare affari con lui. Mi convinsero e non andai oltre.
Dopo il 14 gennaio, la vita divenne incredibilmente diversa, interessante ed affascinante. Il ritmo delle giornate era dettato dagli orari del coprifuoco, dalla corsa ad accaparrarsi qualche scorta d’acqua, dalle notizie su Facebook, e dalle mille telefonate che ci scambiavamo tra amici per tenerci aggiornatissimi sugli sviluppi e sulla localizzazione degli spari. Ci passavano ad esempio notizie sulle auto pericolose che circolavano sparando sui civili, sulle ville dei Trabelsi saccheggiate, sulle loro auto di lusso incendiate, sui discorsi ipocriti del resto dei ministri dell’ex presidente Ben Ali.
La Farnesina intanto aveva preparato dei voli Alitalia gratuiti per far rimpatriare gli italiani. Quasi tutti rientrarono. Io non esitai invece a restare in Tunisia. Mi sarei sentito un vile ad abbandonare proprio in quel momento. E avevo anche la mia ragazza da “proteggere”. Con gli amici ci organizzavamo per rientrare a casa prima del coprifuoco. Spesso andavamo da me, in quanto avevo un mega schermo dove potevamo guardare le news e qualche film. Talvolta si improvvisava una piccola festa.
Era il periodo fra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio. Si stava tutto sommato bene e vivevamo tutti qualcosa di unico. La gente usciva di casa durante il giorno, visibilmente molto più serena. E parlava, parlava, parlava, ripetendo continuamente Ben Ali, Trabelsi, democrazia… Che periodo!
Un giorno però le cose presero per me una piega più cupa. C’erano continuamente manifestazioni nella Avenue Bourguiba, ma l’esercito manteneva l’ordine, tenendo tutto sotto controllo. Io ero li tutti i giorni. Anche quel mercoledì 26 gennaio. Ero seduto sulla piccola scalinata che porta alla cattedrale di St Vincent di Paul, dall’altra parte dell’ambasciata francese. Tirai fuori dalla borsa il mio Mac per verificare una strada su Google Map. Rimasi seduto con il Mac sui ginocchi per due minuti fin quando un paio di tunisini, dal volto segnato dal sole e dalle cicatrici, si avvicinarono e uno di loro mi si sedette a fianco. Era molto grosso, a differenza del suo amico, alto forse un metro e “ho-tanta-voglia-di-crescere”. Mi disse che voleva vedere che cosa stavo facendo sul computer. Io capii che era meglio chiudere tutto e che cambiare aria.
Troppo tardi. Non feci in tempo a togliere la chiavetta USB di internet, che mi arrivò un cazzotto in pieno volto che mi stordì. Dopo qualche secondo mi ripresi e mi accorsi che quel bestione aveva il mio Mac in mano e stava camminando via tranquillo in compagnia di più amici, tutti piuttosto grossi (eccetto “ho-tanta-voglia-di-crescere”). Urlai “Au Voleur” (al ladro), attirando l’attenzione dei militari, ben armati, che erano a 20 metri da me e dai ladri. Le mie urla fecero iniziare a correre i ladri e allo stesso tempo i militari, che caricarono i fucili e insieme a me si misero a rincorrerli in mezzo ad un mare di gente. Corremmo per cinque minuti, ma invano. I soldati abbandonarono la caccia perché non potevano sparare in mezzo alla folla.
Io continuai da solo per i vicoli più nascosti e isolati. Corsi tanto. Ma niente. Per giorni e giorni sono stato in ogni angolo della città, dentro i borghi piu pericolosi a cercare il mio Mac. Ma lo avevo perso, a causa della mia ingenuità. Avevo dentro tutto il mio lavoro e migliaia di foto personali, tra cui molti scatti fatti durante la rivoluzione (gli unici sopravvissuti accompagnano questo articolo).
Beh, questa è stata la Tunisia per qualche mese. Adesso le cose son ben diverse. Non c’è più il coprifuoco. Le manifestazioni sono molto piu pacifiche. C’è una presa di coscienza piu ampia di cosa sia realmente una democrazia. E ci sono appena state le prime elezioni per nominare un’assemblea costituente. Il vincitore di queste elezioni è il partito islamista. Tutta la Tunisi “bene”, quella della media-alta borghesia (e ve ne è molta!), aveva timore che l’affermazione di un partito religioso potesse rappresentare un passo indietro nella storia.
La Tunisia è stata infatti, da Bourguiba fino a Ben Ali, il paese arabo più all’avanguardia e liberale, vietando ogni forma di fondamentalismo e vietando persino alle donne di portare il velo dentro le università ed altri luoghi pubblici. Le donne tunisine godono di diritti e privilegi che in nessun altro paese del Medio Oriente sono riuscite ad ottenere. Adesso nessuno sa bene cosa accadrà. Come sarà la nuova costituzione? Avremo in Tunisia un governo islamico moderato e tollerante simile a quello della Turchia? Oppure il paese farà un salto indietro di qualche secolo?
Io sono piuttosto ottimista. Se da una parte penso che il partito islamista sarà piuttosto moderato, dall’altra ritengo che nel caso in cui non lo fosse, una seconda rivoluzione è molto probabile. Perché la Tunisia, la sua economia e il suo turismo, sono retti da un equilibrio che ha come base un ceto medio-alto di professionisti e imprenditori locali e stranieri. Questa è una minoranza che può scegliere di vivere dove vuole, ma resta in Tunisia proprio per il generale benessere e per le grandi opportunità di crescita che il paese oggi offre. Se gli venisse tolto quello, se il clima sociale tornasse a farsi troppo oppressivo, una nuova diaspora minaccerebbe di precipitare il paese in un’altra crisi economica. Costringendo dunque il popolo a tornare alle urne. Perchè una volta che la gente ha assoporato il diritto di esprimersi è quasi impossibile tornare indietro.