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Cinema

L’insostenibile leggerezza del Requel



In questi ultimi mesi sono usciti tre film che criticano, codificano e definiscono un nuovo termine: il requel.

I tre film sono “Scream”, “Matrix Resurrection” e “Ghostbuster Legacy”, film che non c’entrano nulla l’uno con l’altro, se non per il fatto che si tratta di tre film che sono appunto requel; ovvero la crasi di reboot e sequel.

Partiamo da quello che ne tesse le lodi, ne decifra i tratti e li espone in maniera divertente ma al tempo stesso interessante all’interno di una narrazione, ovvero Scream.

“Scream”

Questo quinto capitolo della saga cinematografica, il primo senza il compianto Wes Craven, si ricollega direttamente al primo film; rimanendo consapevole dei sequel, ma sostanzialmente ignorandoli.

Il film è decisamente splatter ma al contempo molto ironico, quindi risulta più una commedia slasher che uno slasher puro; ma, proprio come il primo faceva della metacinematografia il suo punto di forza citando i vari film dell’orrore, anche questo fa la stessa cosa con i film più recenti, analizzando e criticando il trend di Hollywood degli ultimi vent’anni: quello della nostalgia.

Lo fa sia parlando allo spettatore in quanto tale uscendo dal contesto saga (memorabile come uno dei personaggi muoia nello stesso identico modo in cui muore un’altro personaggio interpretato dallo stesso interprete in un altro film del 2019); sia facendo parlare i personaggi della storia che appunto raccontano, criticano e spiegano perché esistano un certo tipo di film in questo periodo che si appoggiano totalmente su franchise esistenti.

Questo stesso tema, ma stavolta in chiave critica e distruttiva, lo affronta “Matrix Resurrection”, un film tutto sbagliato ma nel modo giusto.

“The Matrix Ressurrections”

Spiego meglio: questo film invece di ignorare i sequel, prende proprio la trilogia originale di Matrix (che come ho detto più volte, per me è ottima nonostante il pensiero generale) come punto di partenza; e sviluppa tutto un discorso meta sul perché determinate operazioni siano scadenti e inutili. Partendo proprio dal concetto che “questa cosa si farà lo stesso, con o senza gli autori originali”.

Infatti in questo Matrix, Thomas Anderson aka Neo (che vi ricordo essere morto alla fine della trilogia originale) vive in ciò che sembra il nostro presente ed è lo sviluppatore e creatore di Matrix; una trilogia di videogiochi che sono esattamente la trilogia delle sorelle Wachowski e frequenta lo stesso bar di una ragazza che si chiama Tiffany, che è la copia sputata di Trinity (che vi ricordo essere anch’essa morta in “Matrix Revolution”).

Al nostro eroe viene detto che, sotto ordine della Warner Bros, deve sviluppare un quarto capitolo che si farà con o senza di lui. Esattamente come è stato detto ai registi e creatori del franchise di Matrix.

Ecco, come dicevo prima, anche questo film fa dell’aspetto meta il fulcro del suo esistere ma, al contrario di “Scream”, qui la critica al business della nostalgia è spietata.

Ciò che fa Lana Wachowski con la sua creatura è apparentemente controverso, ma ad una riflessione più attenta, è l’unica strada possibile: decide di ucciderla con le sue mani.

Il film è appunto una riflessione meta sui requel (ormai diamo questo termine per assodato); ma poi viene sviluppato in malo modo diventando ciò che dice essere questo tipo di operazione: un film brutto.

Come dicevo però è un film brutto ben consapevole di esserlo e questo lo rende più che simpatico ai miei occhi.
Personalmente lo ritengo l’unico sequel possibile per una storia chiusa come quella della trilogia (espansa) di Matrix.

E infine parliamo di “Ghostbuster: Legacy” (“Ghostbuster: Afterlife” in lingua originale), il vero e proprio requel.

“Ghostbusters: Afterlife”

Infatti questo quarto film della saga fa esattamente ciò che viene codificato in “Scream”:

  • Si rifà direttamente al primo film, ignorando i sequel.
  • Ha personaggi nuovi, ma anche la presenza del cast storico.
  • Cerca di crearsi un nuovo pubblico, ma vuole accontentare anche la platea di affezionati.

Infatti questo nuovo “Ghostbuster” sembra chiudere il cerchio aperto (o forse meglio dire definito) da “Stranger Things”, da cui prende in prestito anche un attore. Qualcosa che cerca di abbracciare un pubblico largo, fatto di genitori quarantenni e dei loro figli.

Il risultato è qualcosa che sicuramente colpisce al primo affondo, perché colpisce alla pancia e si sente il cuore di chi l’ha fatto (Jason Reitman ovvero il figlio di Ivan Reitman, l’autore del primo “Ghostbuster”); ma alla fine non lascia niente e non è destinato a restare.

In conclusione ciò che mi viene da dire è che con questi tre film ho capito che i requel non mi piacciono (nonostante abbia apprezzato tutti e tre i film citati). E che l’unica loro forza è quella di far venir voglia di rivedere i film originali.