Under 30 in Giappone: Le mille tribù dell’era glaciale
di Paola Naomi Antonelli14 Febbraio 2012
Il turista straniero che visita Tokio, in particolare se occidentale, include nella maggior parte dei casi tra le attrazioni da non perdere anche le giovani abbigliate secondo la moda lolita e le sue variazioni (gothic lolita, sweet lolita, classical lolita, ecc.), un fenomeno caratterizzata dalla scelta di un abbigliamento stravagantemente infantile, che invece di presentarsi sexy vuole essere giudicato nostalgico e innocente. Queste ragazze, soprattutto durante il week-end, si appostano sul ponte tra la stazione di Harajuku, il quartiere degli adolescenti, e il santuario Meiji.
Almeno fino a cinque anni fa, quello stesso turista avrebbe avuto l’opzione, specialmente recandosi a Shibuya, un altro quartiere favorito dai giovani, di avvistare le ganguro, ovvero quelle ragazze che si scuriscono la pelle (in netto contrasto con il tradizionale ideale della bellezza femminile giapponese, che impone invece una pelle bianchissima), si tingono i capelli di colori appariscenti, e si abbigliano in modo scollato e vistoso, o le yamanba, versione estrema delle ganguro, che oltre a scurirsi ancora di più la pelle, si colorano le labbra e il fondo degli occhi di bianco, e portano lenti a contatto di colore chiaro.
Oggi di ganguro e yamanba non si intravede neanche l’ombra, e le lolita, più che un fenomeno veramente spontaneo, sembrano essere le vittime di un enorme giro di business, che, complice anche il turismo, alimenta la loro preferenza, per un breve periodo della loro vita, verso quel tipo di look. Insomma, quando si parla dei giovani giapponesi, magari osservandoli da lontano, è facilissimo cadere in degli stereotipi molto superficiali, facendosi ingannare da certi fenomeni particolrmente pittoreschi e vistosi
Prendiamo ad esempio il termine “Generation Y”. Questa parola apparve in Giappone per la prima volta nell’aprile del 2005, a seguito alla pubblicazione del libro Generation Y, nihon o kaeru aratana sedai (Generazione Y, la nuova generazione che cambia il Giappone), da parte del Nihon Keizai Shinbun. Il termine fu usato anche come titolo di un talk-show, tra giovani giapponesi e non, “Generation Y, chikyu miraizu” (Generazione Y, prospettive del futuro), andato in onda su un canale a pagamento nel 2008. Eppure sono tuttora pochissimi quelli che ne hanno mai sentito parlare: Generation Y resta un termine fondamentalmente straniero.
In Giappone vengono usate piuttosto definizioni come hyogaki sedai, generazione del periodo glaciale, o lost generation, due espressioni che pongono enfasi sui giovani che cominciarono ad affacciarsi sul mondo del lavoro proprio durante il cosiddetto decennio perdudo, quello compreso fra il 1991 e il 2002, ovvero il periodo di recessione economica immediatamente successivo allo scoppio della bolla economica. Durante quel decennio il tasso di disoccupazione, che fino alla metà degli anni novanta si aggirava intorno al 2%, aumentò progressivamente fino ad arrivare a toccare il 5,4% nel 2002.
La lost generation ha i suoi “vincenti”, i kachigumi, e i suoi “perdenti, i makegumi, connotazioni che si diffusero proprio durante quel periodo di deflazione che fece crollare il mito di una nazione dove tutti facevano parte della classe media, mostrando invece un crescente divario fra ricchi e poveri. Tra I giovani “perdenti” cominciarono ad aumentare i casi di freeter, neet, hikikomori e net cafe nanmin, che divenirono in pochi anni dei veri e propri problemi sociali, come il Giappone non aveva mai visto.
Per freeter (dall’inglese free, come libero, e dal tedesco arbeiter, come lavoratore) si intendono i giovani tra i 15 e 34 anni, non sposati, che passano da un impiego part-time all’altro, e secondo le stime del 2010 del ministero del lavoro sono 1.830.000 (su una popolazione totale di circa 100 milioni) e stanno continuando ad aumentare. Il termine neet (dall’inglese not in education, employment, or training) indica i giovani della stessa fascia di età che non lavorano, non studiano, non seguono un corso di formazione, ma che allo stesso tempo non stanno cercando un impiego e sono sostenuti economicamente dai loro genitori. Il loro numero è raddoppiato in dieci anni, e sono stimati in circa 600.000 (sempre secondo dati del 2010).
Gli hikikomori (i reclusi), sono coloro che non escono di casa e, per quanto possibile, neanche dalla loro stanza, vivendo come i neet sulle spalle dei genitori. Secondo i dati del 2010 sono almeno 700,000. Il loro isolamento va dai sei mesi in poi, e nei casi più gravi può arrivare addirittura a dieci anni. Infine i net cafe nanmin (i profughi che vivono negli internet cafe) sono quei giovani che non avendo ne un lavoro ne una casa, dormono negli internet/manga caffè.
Nonostante alcuni tendano a condannare i freeter e i neet come degli scansafatiche, sostenendo in modo molto superficiale che si tratta semplicemente di giovani che non sono disposti a fare sacrifici, e scelgono quindi quella che a loro sembra la strada più comoda, le ultime statistiche (dicembre 2011) dicono che i laureati che alla fine dell’anno scolastico in corso (1 aprile 2012) hanno la prospettiva di essere assunti da un’azienda non sono più del 71.9%. Questo dimostra che anche in Giappone, rispetto alle generazioni precedenti, per i giovani d’oggi la ricerca di un posto fisso è sempre più difficile, e comunque richiede molto più tempo, in particolare se uno ha un passato “macchiato”, come quello dei neet e freeter.
Allo stesso tempo questi fenomeni sono indice anche di un cambiamento in corso da anni in seno della società giapponese, dove i giovani aspirano sempre di meno ad una carriera da salary man, rifiutandosi di accettare le regole e rigidità tipiche di un impiego a tempo pieno. Essere “di ruolo”, se da una parte assicura una certa stabilità e protezione a livello di benefici, dall’altra vuol dire anche rassegnarsi ad uno stile di vita dedito esclusivamente agli interessi della ditta, a scapito della propria individualità sociale e privata.
Gli schemi sociali di un tempo, insomma, cominciano a sgretolarsi. I casi di karoshi, morte per eccesso di lavoro, ad esempio, che in passato erano tacitamente accettati e che erano aumentati intorno all’anno duemila, specialmente tra i giovani, oggi sono largamente documentati e denunciati dai mass-media. Anche le ditte di più`vecchio stampo cercano di osservare il no-zangyo day, ovvero il giorno in cui si esce dall’ufficio senza fare ore di straordinario. In aggiunta, in seguito del terremoto dell’undici marzo del 2011, e del conseguente appello del governo al risparmio di energia elettrica, alcune ditte hanno cominciato a indurre gli impiegati a fare il minimo indispensabile di lavoro straordinario.
Di riflesso sono sorte nuove tipologie di giovani, che per la prima volta, spinti anche da questi cambiamenti, cercano di far valere le proprie opinioni. Per esempio, un fenomeno di questi ultimi anni è quello degli ikumen, giovani sposati con bimbi, specialmente sui vent’anni, che volendo partecipare attivamente all’educazione dei figli, si sono convinti di non poterlo fare con un ritmo di lavoro tradizionale a tempo pieno. Gli ikumen cercano quindi di cambiare l’idea radicata anche in alcuni dei loro coetanei che il lavoro richieda dedizione assoluta, sostenendo che si può lavorare invece in modo altrettando efficente anche impiegando meno tempo, ed evitando lunghe ore di straordinario, cosa che in alcuni casi gli ha permesso di ottenere un periodo di congedo di qualche mese proprio per poter crescere i loro figli.
Tuttavia, nonostante queste importanti trasformazioni, i giorni di vacanza in Giappone sono ancora nettamente inferiori ai parametri occidentali, e in generale continua ad essere richiesto un forte senso di sacrificio del individuo/impiegato nei confronti del gruppo/ditta di appartenenza.
La nuova realtà quotidiana, resa ancora più fragile dagli scandali che hanno infangato grandi gruppi industriali (come l’Olympus, protagonista di una truffa colossale a danno dei suoi azionisti) e da una forte ansia per il futuro (che lungi dal prospettarsi roseo, profila al contrario continue incertezze), è anche alla radice di un’altra nuova tendenza fra alcuni giovani, che è quella di non desiderare beni di lusso, come il possesso di un’auto o di un grande appartamento. Al suo estremo questo vuol dire uscire poco e trascorrere il tempo prevalentemente a casa, assumendo un comportamento generalmente passivo e ripiegato su stessi. E’ il fenomeno dei soshokukei, la tipologia dei ragazzi “vegetariani”, un termine particolarmente diffuso anche per indicare chi non si fa avanti neanche nei rapporti con l`altro sesso.
Hikikomori e soshokukei, nonostante si allontanino fisicamente dalla vita sociale, mantengono un legame con la società attraverso internet e i nuovi mezzi di comunicazione. La lost generation è infatti la prima generazione che ha sempre vissuto la diffusione di internet a livello globale, e i suoi giovani sono ben consapevoli delle potenzialità che un uso intelligente della rete può offrire.
Oggi in Giappone, come in ogni altra parte del mondo, una delle azioni quotidiani più diffuse tra i giovani è fare tsunagaru, ovvero connettersi con gli altri attraverso i social network, come Facebook e Mixi (versione nipponica antecedente a FB), e fare share, ovvero condividere, con i propri amici reali e virtuali che siano, le proprie passioni, i propri progetti, le proprie sensazioni.
Uno degli effetti dell’uso di internet da parte della generazione del periodo glaciale sono i keitai-shosetsu, i romanzi del telefonino, letti per lo più da liceali, opere che spesso nascono sui forum di internet, ma che poi, grazie al loro successo tra il pubblico virtuale, finiscono talvolta per essere pubblicate anche come libri cartacei. Un altro fenomeno, nato questa volta dalla tendenza alla condivisione, sono certe nuove le ditte di car-sharing fondate da giovani, in cui coloro che possiedono una vettura, soprattutto nell’area metropolitana di Tokio, non usandola durante i giorni lavorativi, la affittano a chi ne ha bisogno, in prevalenza altri giovani, a tariffe più modiche e condizioni più vantaggiose del tradizionale sistema di autonoleggio.
C’è infine un’altra tipologia di giovani, caratterizzati da personalità fuori dalla norma e dotati di talenti inusuali, che non adattandosi alle regole rigide della tradizionale vita aziendale nipponica, puntano a mettersi in proprio. Questi ragazzi, proprio per il fatto di nutrire delle visioni innovative, completamente diverse da quelle della maggioranza dei loro concittadini, hanno il potenziale di diventare i veri kachigumi della lost generation, i Mark Zukerberg o gli Steve Jobs del Giappone: i cosiddetti ino.
Sono giovani pieni di idee, come chi ha inventato un sistema che riesce a misurare in tempo reale il consumo di energia, con relativo costo sulla bolletta di tutti gli apparecchi elettrici collocati in un ambiente domestico, e che permette di accendere e spegnere quei dispositivi anche da fuori casa, collegandosi con un apposito programma internet, un servizio più che mai attuale nel Giappone post incidente nucleare di Fukushima.
Inventiva, fantasia, abilità tecniche, determinazione, un pizzico di follia, e quella particolare originalità di pensiero, che ha originato nel Giappone del passato grandi tradizioni, come l’arte del tè, ovvero un rituale che, a differenza dell’enfasi posta dalle altre culture sull’atto del bere, concentra tuttora l’attenzione sul processo in sè, sulla sua estetica, e non sul risultato finale… Ecco, queste sono forse le chiavi in mano alla lost generation per esprimere, pur vivendo nell’era economica più difficile e incerta a livello mondiale dal dopoguerra, un ventaglio di potenzialità che i loro genitori non avrebbero mai potuto immaginare.