Cinema
“Springsteen: Deliver Me from Nowhere” mi ha ricordato cosa deve fare un biopic musicale
di Omar Rashid17 Novembre 2025
Un paio di settimane fa sono stato al cinema a vedere Springsteen: Deliver Me from Nowhere di Scott Cooper. Non è un film che ti cambia la vita, ma è solido, intenso, con interpretazioni clamorose e soprattutto una storia che non conoscevo: Springsteen chiuso da solo in una casa nel New Jersey, all’inizio degli anni ’80, a registrare Nebraska su un 4 piste mentre fa i conti con depressione, pressione dell’industria e i soliti fantasmi familiari.
Mentre lo guardavo, però, mi è partita una riflessione che non mi ha mollato nemmeno una volta uscito dalla sala: perché questo biopic mi funzionava, mentre tanti altri no? (e sì, le aspettative contano sempre un po’, ma qui non è solo quello).
Non sono un fanatico di Springsteen e, in generale, non sono uno di quelli che conoscono ogni dettaglio della vita degli artisti musicali. Il mio livello di nerditudine si è distribuito in troppi campi diversi per trovare spazio anche lì. Ascolto tantissima musica attraverso il cinema, questo sì: playlist piene di colonne sonore o brani scovati nei film, ma senza alcuna fedeltà da archivista.
E forse è proprio questo il motivo per cui i biopic musicali mi attirano così tanto: mi permettono di entrare in mondi che altrimenti ignorerei.
Il problema è che spesso non ci riescono affatto.

Prendi All Eyez on Me, Back to Black e Bohemian Rhapsody: tre film che aspettavo per motivi diversi e che mi hanno deluso per la stessa ragione. Sono tutti, chi più chi meno, didascalici.
Con All Eyez on Me sembra di guardare la versione in movimento della pagina Wikipedia di Tupac (e paradossalmente è pure noioso).
Back to Black non ti fa mai entrare nella testa di Amy: elenca la sua vita con un ordine quasi chirurgico che la rende ancora più distante.
Bohemian Rhapsody ha le canzoni dei Queen, e infatti durante Somebody to Love ti dimentichi di tutto, poi però ti ritrovi davanti a una biografia imbellettata, piena di evidenziature e zero scarti di linguaggio.
Tre film che non rischiano, che non scelgono, che non trovano un modo cinematografico di raccontare qualcuno.

E sì, le aspettative sono spesso una condanna (ho ancora traumi per Episodio IX di Star Wars), ma qui non c’entrano solo quelle: c’entrano proprio le scelte mancate.
Per questo Elvis di Baz Luhrmann mi aveva mandato ai matti: perché lì la scelta c’è, ed è gigante.
Luhrmann decide che Elvis non va raccontato, va mitizzato.Elvis come supereroe pop; il Colonnello Parker come villain puro (e non in senso metaforico, proprio villain da struttura narrativa).
La storia reale passa in secondo piano: quello che conta è la sensazione, l’eccesso, la vertigine.
E infatti Elvis funziona non perché è accurato, ma perché ti sbatte in faccia cosa significa essere divorati dal proprio mito. È cinema, non riassunto.
Ed è qui che ritorniamo a Springsteen: Deliver Me from Nowhere.
Perché la cosa che Cooper fa, come Luhrmann ma con tutt’altra estetica, è sempre quella: scegliere.
Non prova a raccontare tutta la vita di Springsteen (inutile e impossibile), non prova a dare un contesto totale. Prende Nebraska e lo usa come lente, come atmosfera, come temperatura emotiva.
Il film non parla di Springsteen, parla attraverso Springsteen. Lo mette in quella casa, in quell’isolamento, in quella crepa emotiva che ha generato il disco. Non riassume: immerge.

Lo stesso principio regge A Complete Unknown di James Mangold.
Mangold non spiega Bob Dylan (anche perché spiegarlo sarebbe come provare a spiegare il vento).
Mostra il momento in cui cambia pelle: quando abbandona il folk, tradisce il suo pubblico, si reinventa elettrico. È un film sulla metamorfosi, non sulla biografia.
E poi c’è Amadeus di Milos Forman, il caso più radicale.
Forman capisce che Mozart, preso frontalmente, non funziona: è troppo grande, troppo inspiegabile.
Allora sposta il centro: il protagonista non è Mozart, è Salieri.
È il suo sguardo malato, geloso, ossessionato, a creare il film. E attraverso quella lente deformata Mozart diventa una creatura quasi sovrannaturale.

Storicamente falso? Sì.
Cinematograficamente perfetto.
La verità è che questi tre film fanno la stessa cosa: non raccontano un artista, raccontano un punto di vista.
Ed è questo che distingue il cinema dalla cronaca: la forma, la posizione, la scelta.
È paradossale, ma proprio scegliendo, semplificando, deviando, riescono a dire la verità degli artisti molto meglio dei film che provano a raccontare tutto dalla A alla Z.

Un biopic non è la vita di qualcuno: è un’interpretazione.
E quando c’è un’interpretazione, allora c’è il Cinema.