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Gravity: realismo spaziale come sofferenza della maternità



fethal

Gravity non è un film di fantascienza. Non è un thriller. Non lo è e dispiace andare contro a tutti quello che lo hanno visto e che sfortunamente in questa desolata Irlanda dove di fatto mi tocca passare del tempo solo oggi hanno reso il film disponibile nelle sale in 3D.

Gravity è un film dall’energia visiva impressionante, senza precedenti e quasi mozzafiato nelle sue raffigurazioni della silenziosa Terra, il sorgere del freddo sole e l’ipnotica Area Boreale. ‘Kovalsky’, interpretato dal bravo G. Clooney è simpatico ed eroico, persino al livello onirico, e ‘Ryan’ (Sandra Bullock) ha una delicatezza ed energia alla Ripley di James Cameron in Aliens (1986)… ma c’è altro in questo film, c’è qualcosa non immediato che tuttavia gli da una luce magnifica, unica, al di là del visivo, al di là del coinvolgilmento: è il simbolismo fetale e materna dell’intera pellicola.

Gravity nei suoi silenzi e nelle sue ruoteanti riprese è una fantastica allegoria della sofferanza materna. I cavi che così tante volte sono lietmotiv della pellicola, dal cavo che tiene legati Ryan e Kovalsky dopo il primo impatto, i cavi del paracadute che rimangono impigliati nel Pod dell’ISS sono tutti elementi che ricordano così chiaramente il cordone ombelicale.

L’immagine non è affatto sottile, il regista Cuaròn lo fece già intendere quando Ryan entra nella stazione spaziale Russa e si toglie di dosso la tuta, lasciandosi per un attimo fluttuare confusa, disperata, sola… nel calore della vita che temeva di aver perso, e si abbandona il un posa fetale, con dietro sospeso l’inequivocambile ‘cordone’.

Ryan, protagonista ‘maschiaccio’ che non per caso è madre di una bambina morta accidentalmente a quattro anni, è ferita, sola, un po’ cinica e allo stesso tempo determinata.

Sarà alla fine del film tuttavia che l’immagine del parto e la sua sofferenza si farà più ovvia che mai, con il rocambulesco rientro della capsula spaziale a Terra, l’attraversamento vibrante dell’atmosfera terrestre. Non basta, Ryan si trova ad atterrare a bordo dell’acqua e dover nuotare (dal liquido amniotico?) fuori in superfice imbranatamente, incapace di usare bene le articolazioni dopo tanto tempo senza gravità… e raggiunto finalmente il suolo, la sabbia,  dovrà ‘rimparare’ a camminare, prima strisciando, poi a gavettoni, per poi, finalmente alzarsi e sorridere al cielo, visto invertito.

No, questo non è un sci-fi spaziale dalle qualità visive. La sua ambientazione è odierna, anzi, retrò, con Ryan che indossa una vecchia tuta spaziale Sovietica. Chi bolla questo film come fantascienza ( come è stato fatto da Cameron e Tarantino) lo fa per togliere magia, energia, creatività, a questa parabola umana, inter-umana, extra-umana.