Tyrant è un family drama ambientato ad Abbudin, un paese d’immaginazione che si trova da qualche parte in medioriente, governato da anni dalla dinastia dittatoriale degli Al Fayeed. La famiglia presidenziale è composta dal padre devastato dal suo passato, da una moglie che a vederla sembra una contessa scozzese, e da due figli maschi, Bassan, dottore occidentalizzato che vive da anni negli Stati Uniti, e Jamal, crudele ma anche fragile primogenito, erede diretto alla presidenza del paese.
Bassan, a vent’anni, si trasferisce in America; diventa medico, sposa la biondissima Molly e sforna due figli, un maschio, gay, e una femmina, ribelle. Jamal, fa il figlio di papà mantenuto, sposa Leila, una sexy araba che il burka non lo usa nemmeno per pulirsi i capelli dopo la doccia, e si prepara al meglio a diventare il dittatore sanguinario di questa Miami musulmana. Sì, perché già dall’inizio Abbudin non sembra proprio un paese islamico tradizionale: uomini che si sbronzano di birra, vino e qualsiasi cosa stordisca per bene e che di arabo hanno solo le barbe, donne con scollature mozzafiato che non si fanno problemi a “consumare” prima del matrimonio, durante o quando ne hanno voglia, discoteche che farebbero invidia a Berlino, champagne, casinò, bionde, brune, rosse, insomma, più che un paese arabo, sembra un quartiere etnico di un paese della California dove a tutti piace giocare alla famiglia musulmana. In generale sembra che i ricchi siano americani trasferiti, che usino la tradizione per farsi belli durante le cerimonie, mentre i poveri manifestano la loro devozione “classica” nei confronti di Allah.
Bassan conosce bene Abbudin, è casa sua, il posto dove è cresciuto, e a vederlo così, non sembra nemmeno tanto male se si tralasciano gli eccidi di innocenti fatti in passato dal padre, o da chi per lui, ed è proprio questo il motivo per cui Barry sente il bisogno di ritornare ad essere arabo, soprattutto una volta conosciuta e compresa la vera democrazia, quella americana, quella esportata per anni in tutti i paesi col petrolio. Alla morte del padre, il potere va in mano a Jamal, che nel frattempo rischia di perdere l’uccello durante una “ribellione sessuale” di una sua amante che ha tentato volutamente di tranciarglielo di netto durante del sesso orale forzato. Jamal diventa presidente, e Bassan consigliere speciale della presidenza; ma presto, dopo lunghe riflessioni dalla profondità etica radicalmente scontata, passa dal manipolare il fratello per il bene della patria ad organizzare un Colpo di Stato per assicurare ad Abbudin la tanto attesa pace e delle elezioni democratiche regolari. Nemmeno i repubblicani del Texas del Sud crederebbero più a queste cose.
La cosa più assurda è il susseguirsi degli eventi, la sterilità emozionale del protagonista, l’omosessualità del figlio trattata solo in due puntate perché ormai fa tendenza, l’inserimento di alcuni personaggi inconcludenti, paraculate poco efficaci e imbarazzanti come la distinzione evidente fra il presidente senza scrupoli e l’americano civilizzatore. In ogni caso la gravità della serie è la base, l’idea che un’arabo andato a vivere in America possa tornare e portare la democrazia nel suo paese, al punto di spodestare il fratello che con tutti i suoi difetti lo ama profondamente, infischiandosene delle reali questioni da affrontare, del contesto sociale e governativo e ribadendo dunque in modo fiero gli stessi errori che gli Stati Uniti hanno commesso e continuano a commettere ancora oggi nei paesi non-democratici. La serie, in sostanza, non fa altro che semplificare una delle questioni più complesse dei nostri tempi nell’esportazione ideale e disinteressata della democrazia, come se chi avesse vissuto in un paese democratico sentisse il dovere di rovesciare tutto perché è giusto e non per le risorse che quel arido paese tiene sottoterra: questo è quello che la serie trasmette in un modo nemmeno troppo criptico, ma è anche quello che non può mai accadere, neanche in un’universo parallelo come Abbudin, dove non si capisce bene se sono gli arabi ad americanizzarsi o viceversa, e anche se potesse accadere, sarebbe preso da un romanzo scritto a metà del secolo scorso, quando trattavamo apertamente i paesi non-democratici come inferiori e bisognosi di noi e della nostra cultura.
Poi c’è il ”fattore Beautiful”, le trame familiari e amorose, le strategie controverse, i tradimenti e tutto ciò che riesca in qualche modo a trasformare una serie tv in una soap opera degli anni ’80. In sostanza Tyrant è un family drama che voleva portare alla luce aspetti politici, a favore degli ideali democratici, ma che mette in evidenza soltanto l’occidentalismo puro e classico, quello imperiale e colonizzatore, senza contesto ne cultura, rifugiandosi nell’aspetto inventato della sua ambientazione. Sinceramente, dai creatori di Homeland, ci si aspettava qualcosa di più…