Ognuno ha un’esigenza.
Ognuno a modo suo riesce a trovare una strada per comunicarlo al prossimo.
Non che ce ne sia particolare bisogno, ma la società di oggi è educata in modo tale che la condivisione è uno degli elementi essenziali della quotidianità.
L’unione di creatività e condivisione è il binomio che differenzia l’esigenza profonda dell’essere umano rispetto ad un altro che manca del primo fattore e se il risultato riesce a comunicare un messaggio e a trasmettere un’emozione, il fautore viene identificato come artista.
Le forme di espressione sono varie e in continua evoluzione. Spesso un’elaborato è frutto di contaminazioni precedenti, altre ispirazioni artistiche, personaggi o semplicemente ciò che ti circonda.
Oggi per trovare un elaborato che rispecchi quelle caratteristiche che lo pongono sul piano artistico, non è necessario sondare determinati ambienti specifici: basta una strada.
Ed è proprio quello lo spazio in cui ad oggi è più probabile trovare un’emozione. Proprio perché spesso un muro ha più tecnica, colore e messaggio di una tela; gli ambienti cambiano e si incastrano, ponendo ciò che prima avresti trovato solo camminando distrattamente tra le vie del quartiere di casa, nello spazio di una galleria che legittima l’espressione artistica. Ed è a questo punto che sempre più spesso ci si trova a pensare che «l’arte urbana abbia raggiunto, in questi ultimi anni, uno status fondamentale che le consente a pieno titolo di entrare nei grandi circuiti museali internazionali. E dico anche: meno male! La gente si sta rendendo conto di cosa è veramente la street art, ovvero un’ opera d’arte che ha un forte approccio comunicativo sulle persone. Un movimento artistico a tutti gli effetti. Basti pensare a Obey, Banksy e Basquiat, è anche grazie a loro se ora parliamo di questo. Ho avuto l’occasione di andare all’ Outdoor presso il MAXXI, un festival street art: lì, per esempio, ho percepito questo nuovo connubio fantastico tra architettura e street art. Ho visto delle opere di Buff Monster, artista losangelino, Galo gallerista torinese e anche artista». Ed è interessante osservare che spesso è proprio l’arte urbana che se non si manifesta nella sua forma grezza e prepotente, si trasforma, si evolve e si adatta ad altre soluzioni, come ad esempio «molti illustratori sono anche street artist, grafici e anche calligrafici. Luca Barcellona è uno di quelli. Senza nessun problema ci sono street artist che espongono in galleria come farebbe qualsiasi altro pittore basti pensare a Dulk, Etnik, Lucamaleonte, Solo (QUI l’intervista), Mr. Thoms: sono tutti artisti contemporanei che in qualche modo stanno rafforzando questo approccio strada/galleria in Europa. E io penso sia davvero fondamentale vivere in questo contesto: reale, di strada».
Roberto Gentili, grafico ed illustratore, ha avuto un percorso in cui le sue linee hanno preso una forma che si è caratterizzata passando dalle vie delle maggiori città italiane e i bianchi e neri che lo identificano sono il risultato dei colori sui muri, della musica che lo ha accompagnato e da «una strada cosparsa di ciottoli dorati».
Quanto il tuo percorso formativo ha inciso sulla creazione di un tuo stile personale?
Sono stato fortemente influenzato dal mio percorso: Napoli è stata un grande scuola d’ispirazione e di vita. Ho frequentato una scuola di grafica e questo mi ha portato ad una ricerca continua del mio stile. Sono (ancora oggi) attento alle tendenze e ai cambiamenti che mi circondano: analizzo qualsiasi cosa che possa avere un visual comunicativo e al contempo particolare, dai poster alle illustrazioni, dai graffiti ai bigliettini della metro.
Il fatto di esserti allontanato dalla tua terra d’origine pensi che sia stato un elemento fondamentale per il tuo sviluppo personale o al contrario averla lontana è stato fonte d’ispirazione?
È triste da dire ma è stato fondamentale per me. Il problema è che da dove provengo, nonostante il ricco patrimonio artistico, si è rimasti arretrati rispetto al resto d’Italia. Penso che allontanarsi dalla propria terra sia il giusto modo per capire se stessi, cercare di crescere e limitare i confini. Te ne accorgi quando metti piede per la prima volta in una grande città: in quel momento ti senti piccolissimo e capisci che se ti fermi sei fottuto dalla competizione. Penso che la lontananza dalla propria terra possa dare una grande motivazione per far bene, cercare di riscattare il luogo da cui provieni, far capire alle persone che c’è una speranza. Questo è un energetico per animare la mente.
Hai partecipato a più manifestazioni artistiche nella capitale nel tempo: sul piano artistico pensi che Roma sia una piattaforma fertile per la creatività, luogo in cui un confronto può essere formativo?
Io ho un rapporto molto particolare con Roma: amore/odio. Mi ha riservato periodi di inculate allucinanti e periodi di grandi soddisfazioni. Per fortuna ultimamente sto continuando a raccogliere le seconde. Sicuramente Roma è terreno fertile per l’arte in tutte le sue forme: dalla grafica alla pubblicità, dalla street art all’illustrazione. Te ne accorgi appena metti piede per strada: vedi campagne pubblicitarie di grandi multinazionali accostate ad un’opera di Lucamaleonte o Sten Lex o di Alice Pasquini.
La tua arte si è presto legato all’ambiente Hip Hop. Infatti hai avuto più collaborazioni con vari artisti e magazine legate alla musica rap. Come si è creata questa connessione?
È nato per pura combinazione. Tutto è iniziato durante una rassegna hip hop: “Hanno La Stoffa”, di cui progettai la comunicazione. Lì, parteciparono Francesco Paura e Corrado Grilli (Mecna, ndr). L’intento era quello di creare un laboratorio che spiegasse il connubio della grafica applicata alla musica: progettazione dell’artwork, impaginazione del booklet, necessità di una buona comunicazione per pubblicizzare un prodotto musicale. Rimasi affascinato. Questo fu una buona rampa di lancio per il mio lavoro: conobbi Loop Loona un po’ più tardi, una rapper che mi coinvolse in più progetti, Loonedi Freetape e Athena furono gli artwork più conosciuti, presentati a The Flow su Deejay Tv. Ultimamente sto seguendo altri progetti musicali: Parkwave e BFC sono degli esempi tangibili del mio cambio stilistico.
Nei tuoi lavori si nota un tratto fortemente netto, caratterizzato prevalentemente da bianchi e neri o in mancanza di esso comunque si mantengono visibili delle linee marcate (date anche dal tuo utilizzo di chine). Qual è stato l’elemento caratterizzante che ti ha portato ad esprimerti in un modo così netto, piuttosto che scegliere un’altra tecnica?
Il mio principio di disegno parte dallo schizzo. Fondamentalmente sono un patito dei non colori: bianco e nero. Cerco di utilizzarli quanto più possibile sia per le illustrazioni a china, sia per marcare maggiormente il tratto, rendendolo più deciso e senza necessità di colorarlo. Uso tonalità molto leggere e ho dei riferimenti molto particolari: una sorta di minimalismo anche nel disegno che realizzo usando le chine. Prima disegnavo solo su digitale, ultimante mi sto spingendo di più a creare schizzi inediti fatti a mano. Ci sono state un po’ di critiche sul fatto che l’illustrazione pura nasca dalla carta e non dal computer, ma il fatto la concezione del disegno è cambiato: non si ferma più sullo schizzo su carta.
In che modo e per quale motivo nasce la tua collaborazione con il magazine 2BePOP?
La mia collaborazione con 2BePOP nasce nel 2010/2011. Ero fresco di Accademia quando incontrai su un regionale Paola/Cosenza una persona che mi cambiò completamente la vita: Stefano Cuzzocrea, un giornalista e critico musicale, amato da tutti nel suo ambiente. Lo contattai dopo qualche giorno e gli chiesi delle dritte per intraprendere il cammino editoriale in qualche magazine di musica. Lui mi consigliò varie testate, Rumore, Mucchio e Rolling Stone e mi disse: ”Ho cari amici e collaboratori che possono aiutarti, ma non ti nascondo che mi saresti di grande aiuto per il mio blog, 2BePOP”. Restammo una nottata intera a parlare di questo progetto. Da lì fui arruolato a titolo definitivo e contribuii a chiudere il numero 0: un numero sperimentale chiuso in due giorni.
Tutte le collaborazioni che sei riuscito a creare negli anni nei diversi ambiti, pensi che abbiano un denominatore comune che le collega tutte?
Sicuramente sì, il comune denominatore è la musica. Sono sempre stato affascinato da questo mondo. Ormai credo di essere etichettato per questo: un artista che lavora prevalentemente per la musica. Il mondo della musica, specialmente di quella indipendente e underground in Italia è molto più fertile e vivace di come certi network tradizionali vorrebbero mostrare. É come vivere in piccolo nella New York fine anni sessanta.
Proponendo il tuo lavoro nelle diverse forme, cerchi di esprimere un determinato messaggio alle persone che ne fruiscono?Molte persone vedono delle cose nei miei lavori che magari sono differenti da quello che voglio effettivamente esprimere. Credo sia naturale: ciascuno coglie i riferimenti in base alla propria esperienza, umana, emozionale e intellettuale. Questo è interessante perché mi fa capire che il messaggio non è limitato ma che si apre a tante persone, qualcuno direbbe: moltitudini. La mia è un’esigenza di fuga verso un mondo parallelo esistente nella mia mente, che nessuno può capire. È un mondo dominato da colori e chiaroscuri. Quello che mi sta più a cuore è l’esigenza di riscatto: questo voglio far capire alle persone.
E seguendo la dinamica trasformazione della creazione artistica, il punto si concretizza in un’unica risposta: «La vera arte passa per la vita della gente, come un’opera di street art».
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{Credits Photo: Michele Matteo Catanzariti – 2015 – facebook}