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The Bronx is Burning – Reportage dal Bronx



di Iacopo Tonini

Reportage dal Bronx: alla scoperta delle radici della cultura Hip Hop

In un lontano maggio del 1996 l’album Neffa e i Messaggeri della Dopa dava il suo contributo alla storia della musica italiana e rendeva l’Hip Hop, movimento culturale importato in Italia dal Bronx di New York giusto qualche anno prima, un po’ meno underground; gettando di fatto le basi per la commercializzazione dei tardi anni 2000.

In quell’album c’è una canzone, In Linea, in cui il guaglione di Scafati, segnando in modo permanente l’immaginario di un adolescente, cantava:

So da dove viene questa strada che continuo chico,
nasce giù nel Bronx, già da vecchia data, Zulu Nation, Afrika Bambaataa,
Dj Kool Herc e GrandMasterFlash,
e il mio gruppo preferito son A Tribe Called Quest”.

Quell’adolescente ero io. E quei versi stimolavano la mia curiosità a tal punto da farmi scollegare dal mondo intorno e proiettarmi mentalmente in mezzo alla musica e alle strette di mano del Bronx, incuriosito dalla complessa storia che si cela dietro alla nascita di tale movimento culturale.

La scorsa estate mi trovavo a New York per lavoro e ho finalmente avuto l’opportunità di andare nel Bronx a vedere con i miei occhi quel microcosmo che ha da sempre richiamato la mia attenzione.

La storia del Bronx

Il Bronx è uno dei cinque municipi della città di New York e ne è diventato parte verso la fine del 19esimo secolo. Il Census Bureau, l’istituto di statistica americano, definisce il Bronx “una delle aree più diversificate del paese dal punto di vista etnico” e stima che la probabilità che due residenti del quartiere scelti casualmente appartengano a due etnie distinte è pari all’89.7%.

La diffusa credenza che associa il Bronx a una zona off-limits è dovuta alla sua storia. In un editoriale sul municipio newyorkese, il The Guardian sosteneva che fino agli anni ‘60 il Bronx era “oggetto delle ambizioni residenziali dell’alta borghesia”. L’evento che ha determinato la rovinosa trasformazione di questo quartiere, trascinandolo in una morsa di persistente povertà e acuto disagio sociale, fu la costruzione della Cross Bronx Expressway. La superstrada edificata dall’urbanista Robert Moses spaccò il municipio a metà, ed ebbe l’effetto collaterale di dividere il più povero sud dal più ricco nord – forbice che incrementò a dismisura negli anni successivi.

La popolazione bianca, rappresentante il 98% degli abitanti del Bronx negli anni ‘40, iniziò ad abbandonare gli immobili a sud della Expressway – cinquanta anni dopo, negli anni ’90, la popolazione bianca rappresentava solo il 35%. I sempre più frequenti abbandoni diedero vita a una serie di occupazioni abusive da parte di senza tetto, spacciatori e tossicodipendenti che trascinarono il quartiere in un vortice senza fondo. Il sud del Bronx fu letteralmente abbandonato a sé stesso.

Sempre il The Guardian scrive: “quelle che un tempo erano delle magnifiche case residenziali, venivano date alle fiamme da tossici o da padroni di casa senza scrupoli che intendevano sbarazzarsi di appartamenti ormai impossibili da affittare”. Negli anni ‘70, il fenomeno del fuoco divenne tanto pervasivo e frequente che fu coniata l’espressione “The Bronx is Burning” dopo che durante una partita degli Yankees, il giornalista Howard Cosell, esclamò: “there it is, ladies and gentlemen, the Bronx is burning”, quando l’elicottero incaricato delle riprese aeree inquadrò svariati blocchi di edifici in fiamme.

In totale, tra il 1970 e il 1980, più del 40% del Sud del Bronx fu dato alle fiamme e abbandonato – mentre sullo sfondo la stagnante economia americana si confrontava con un alto tasso di disoccupazione e l’incapacità di generare nuovi posti di lavoro. Per queste ragioni il Sud del Bronx vide aumentare il tasso di criminalità esponenzialmente, diventando il regno di gang e spacciatori, e guadagnandosi la sopracitata cattiva fama.

Fu in mezzo a tutto questo trambusto che nel 1973 nacque l’Hip Hop. E nacque esattamente nella community room del 1520 di Sedgwick Avenue, dove viveva DJ Kool Herc, al secolo Clive Campbell, un americano di origini giamaicane organizzatore dei primi eventi e DJ in consolle. Quando sono andato nel Bronx la prima volta era proprio qui che ero diretto.

Alla scoperta delle origini dell’Hip Hop

Sceso alla fermata di 176 Street, dopo che la metropolitana aveva superato l’imponente stadio degli Yankees, ho trovato una New York diversa da quella che avevo visto fino ad allora. L’impersonale architettura geometrica della borgata sostituiva i grattacieli tipici del centro e l’atmosfera frenetica che si respira nella city era svanita. Superando gruppi di persone radunate a bere birra nei propri cortili, mentre il jingle del camioncino dei gelati faceva da sottofondo musicale, realizzavo che la differenza maggiore era un’altra. Mi sentivo dentro una ‘community’, come se il Bronx fosse una città nella città, che con New York condivideva solo legami di tipo amministrativo.

Scesa una ripida rampa di scale all’ombra di due imponenti case popolari, mi sono ritrovato su Sedgwick avenue, che ancora oggi rimane una delle zone più povere del municipio e confinante con una delle zone con il tasso di criminalità più alto. Lungo il viale addobbato di palazzoni un portoricano che gestiva un autolavaggio fai-da-te, attività incontrata più volte sulla via, mi ha indicato il civico 1520. Il palazzo che custodisce la culla dell’Hip Hop non ha niente di diverso dagli altri palazzoni che lo costeggiano: è un ammasso di mattoni marroni che si erge accanto ad un grosso cavalcavia. “Era qui che viveva DJ Kool Herc?”, ho chiesto ad un ragazzo che usciva dal portone, che in un accento spigoloso mi ha risposto: “Certo. Tutti lo conoscono, qua è una istituzione”.

DJ Kool Herc aprì la strada alla cultura Hip Hop, che divenne sempre più popolare tra le comunità afroamericana e latina, remixando pezzi funk e soul con la tecnica del break-beat djing, un nuovo modo di mixare tipico della musica dub giamaicana. Fu così che i block parties, feste che radunavano l’intero vicinato, talvolta bloccando la viabilità stessa, esplosero; in parte come una risposta al disagio sociale di quegli anni: una opportunità per radunare la comunità, spendere del tempo insieme e far sentire la propria voce. Dai condomini senz’anima il movimento di protesta underground, si andò gradualmente diffondendo, fino ad arrivare a diventare la macchina da soldi che è al giorno d’oggi l’industria della musica Hip Hop.

Il futuro del Bronx

Mentre tornavo verso la metro, superando campi da basket dove gruppi di ragazzi si sfidavano a suon di tiri da tre e terzi tempi, e attraversando gruppi di latinos che giocavano a carte fuori dai loro barbieri, riflettevo su un articolo del New York Times che discuteva come la gentrificazione che sta interessando tutte le periferie newyorchesi potrebbe portare alla vendita del palazzone di Sedgwick avenue.

Quando anche il Bronx verrà ritenuto sicuro dai più (e una prima debole conferma di ciò si può già vedere nell’aumento della popolazione bianca che nel 2013 rappresentava il 45% secondo il Census Bureau) la working class che popola queste zone, spinta dall’aumento dei prezzi delle abitazioni che si sta avendo in risposta al cresciuto interesse verso quest’ultime, verrà costretta a trasferirsi. L’effetto sul microcosmo del Bronx sarà devastante. E rischia di portarsi via le origini di una sottocultura che in meno di vent’anni è diventata un fenomeno di scala mondiale.