Passano gli anni e sempre meno spesso mi capita di imbattermi in quella musica che fa venire i brividi lungo la schiena.
Chi è Anderson .Paak? Da dove arriva?
Non ne ho la minima idea..non mi interessa, ma se volete c’è sempre Wikipedia. Io voglio parlarvi di Malibu, questo assoluto capolavoro che entrerà senza ombra di dubbio tra gli album migliori di sempre, al di là di quale sia il genere che più vi compiace.
Se l’hip hop viene dal funk, ma anche dal soul, dal jazz, e dal blues, Anderson ha creato un album soul che viene dall’hip hop.
Avete presente quegli album che quando li ascoltate non riuscite proprio a trovare il pelo nell’uovo? Ecco..io no, non mi è mai successo tranne che con Malibu. Ok, ad essere onesti anche con l’album di Joey Badass, ma quella è roba per amanti del rap mentre Anderson è per gli amanti della musica. Anzi…per amanti e basta, della vita s’intende.
E’ da tipo 15 anni che sto in fissa col beatmaking, e posso affermare che questo disco vanta delle strumentali ibride che già di per se lo renderebbero un capolavoro: una perfetta simbiosi tra musicisti (ovvero persone che suonano strumenti) e compositori/beatmakers che traspare sin dal secondo 1, da quel bellissimo rullante così pieno, lucido, dinamico.
Su queste batterie swingate acquistano significato dei giri di basso che mandano tutti a casa, il cui gusto è funk e che a livello ritmico vanno ad inserirsi perfettamente tra gli spazi lasciati dalla batteria.
Insomma quest’album è prodotto da assoluti professionisti che sanno lasciare il giusto spazio ad ogni strumento senza mai (ed intendo proprio mai) stroppiare.
E’ veramente incredibile e giuro, non mi paga nessuno per pubblicizzare Malibu. Chitarre e organi si appoggiano su questo groove con una delicatezza che diventa orgasmo quando gli stessi strumenti vengono campionati e risuonati, dando quell’effetto loopposo che solo i tagli di un campionatore sanno dare.
E su questo spettacolare tappeto d’accompagnamento prendono vita assoli che vi portano letteralmente via con la testa.
Come se la vostra mente fosse una foglia e gli strumenti a fiato il vento che vi solleva delicamente da terra e vi porta sù, a volteggiare.
Ok…stavamo parlando della parte strumentale, ma il disco non è strumentale ,ma volto ad accogliere le sublimi interpretazioni di Anderson. Dirvi che sono cariche di sentimento è un eufemismo.
Ma il sentimento da solo non basta, qui abbiamo grande tecnica e immaginazione a palate.
Già il timbro stesso di Anderson è molto particolare, e se viene coniugato in melodie soulful intervallate a parti corali ancor piu soulful, amici miei non avrete scampo: è amore. E’ palese l’influenza della rappata, talvolta più marcata ma sempre in una chiave molto delicata.
Ne traspare una padronanza metrica molto evoluta, come fosse una pallina da ping pong che rimbalza ad intervalli ritmici mai scontati, ma sempre ricercati. Anche se forse non è che ci sia questa grande ricerca…io penso che ad Anderson tutto ciò venga più che spontaneo. Per quanto bello, un certo flow ascoltato allo sfinimento tende a stancare e Paak ha pensato anche a questo.
Ha inserito pochi featuring ma distanti dal suo stile, per spezzare nel migliore dei modi l’atmosfera da lui creata. Veniamo dunque ai nomi: Schoolboy Q e Talib Kweli per citare i rappers, 9th Wonder e Madlib per i producers. I musicisti invece sono veramente troppo per essere citati mentre mi sento in obbligo di citare Cris Plata e Jared Hirshland rispettivamente per il mixaggio ed il mastering eccezionali.
Sicuramente il successo è già arrivato in casa Anderson, ma non so in quanti si siano resi conto del pezzo di storia che è stato scritto. Sarà il tempo a miticizzare questo album, al di là di qualsiasi futura piega prenderà la musica di Paak nel futuro.
Qualunque sia la vostra indole musicale, a mio avviso, se non vi piace Malibu, non vi piace la musica.
Trovatevi un altro passatempo.