Il progetto NONLETTURE nasce nel 1999 come un esperimento di astrazioni e lettere che dovevano diventare libro e che invece sono diventate sito, dice Elia il fondatore.
“L’idea è venuta quando da spettatore ero presente a un reading di nuovi autori, niente mi prendeva, gli autori avevano poco più di cinque minuti per leggere un passo saliente del loro libro e nulla, in così poco tempo due persone in piedi con un libro in mano non riuscivano a catalizzare attenzione, subivo quelle letture senza desiderarne di più. Non perché le storie fossero brutte ma perché era molto difficile entrare e uscire da un libro nel bel mezzo di una platea, con un passo di una storia di soli cinque minuti. Poi ero sfinito dalle solite esperienze personali, delle solite storie di tutti i giorni in cui gli autori mettono loro stessi.”
Così inizia l’avventura di Elia e Yumi.
Partono per spedizioni che li portano nel mondo, NonLetture porta loro a raccontarle queste spedizioni.
Riportano i loro viaggi restando fedeli all’idea originale: “spingere le parole fino alla più sottile astrattezza del succo, per sganciarsi dal rapporto passivo che il lettore ha con il libro e la storia che legge, il tentativo è renderlo libero di scegliere la pagina alla quale donare attenzione. In questi testi il lettore beve le parole che più lo appagano tralasciando tutto ciò che non è di suo gusto. Non ci saranno trame, personaggi da seguire o in cui immedesimarsi ma spuntini d’ignoto, il cui ripieno non è mai confezionato dall’autore bensì dal lettore che sceglie dal buffet“.
Noi di Gold abbiamo avuto il piacere di fare da sponsor alla spedizione 2016 e ci prepariamo a fare lo stesso per quella del 2017 di cui vi parleremo in futuro.
Per ora godetevi il racconto di Elia e Yumi.
NONLETTURE – SPEDIZIONE 2016
Percorso tra: India, Bali, Australia e Corea del Sud
10 Gennaio – 10 Aprile 2016
Sponsor:
DOLOMITE OUTDOOR
BESTOUTDOORS
KATADYN
UNIPOL ASSICURAZIONI
GOLD FIRENZE
“Nella vita di chi viaggia per scoprire, arriva sempre il momento in cui l’INDIA ti squilla in tasca, la chiamata dove vuoi andar a fondo in te stesso più che in ogni panorama che ti circonda. Volevamo questo naufragio di leggende senza fronzoli per toccare l’altra faccia dei nostri confort, dei nostri ragionamenti occidentali, dei nostri problemi occidentali, per scoprire, di nuovo, un altro punto di vista, non migliore ma certamente diverso e più antico. Volevamo percepire cosa si nasconde dietro a tutta questa moda spirituale che viene venduta nel mondo, volevamo toccare gli stereotipi con i nostri occhi e riportare a casa un po’ di preziosissima polvere di verità, senza che nessuno la sciogliesse per noi”.
“L’organizzazione si è concentrata sui nostri libri in viaggio, gli sponsor e l’equipaggiamento zaino in spalla. Di prenotato avevamo soltanto un aereo per Cochin, il resto lo abbiamo vissuto letteralmente in balia: del caso, dei passanti e dell’imprevisto .
Per due mesi e gran parte del tempo, i nostri occhi sono stati cerchiati dal nero pneumatico dello smog indiano. Abbiamo girato il sud su una Royal Einfield del ’69 lasciando, sulla fiducia, in cambio della moto, uno dei passaporti al tizio che ce l’ha data.
Carichi come muli in salita, siamo partiti con una borraccia a filtri d’argento per potabilizzare l’acqua lungo il percorso, abbiamo mangiato con le mani, remato nei canali, ci siamo ammalati e fatti curare senza ospedali dall’unica dottoressa del villaggio: un’ ostetrica. Ci siamo lavati con acqua salata e fredda senza quasi mai avere intorno a noi ristoranti, luce, supermercati, discoteche, olio extravergine, gente in viaggio, bar. Solo e lunghe strade polverose di individui in panne, un ambiente fitto di rumore, caos, polli, bambini, vecchi, vacche e carretti di ogni genere.
Abbiamo visto gli elefanti attraversare l’autostrada senza che questo fosse eccezionale, abbiamo visto pappagalli pescare carte regalando oroscopi a bambine vestite in sari, siamo entrati in un Ashram e siamo scappati, siamo entrati in un tempio a Tanjore e ci hanno quasi assaliti, siamo stati tamponati e siamo stati abbracciati teneramente, nella giungla abbiamo trovato la nostra Palma del Destino, ma questa è una lunga e mistica storia.
Abbiamo trovato Auroville, un “Utopia” del futuro ai confini del vero, una comunità dove il pensiero diventa forma pura di culto. Ad Auroville persone in viaggio da tutto il globo diventano residenti che si ritrovano a “pensare” in una gigantesca palla da golf dorata, come uscita da Star Trek.
Un giorno di gennaio abbiamo “Pensato” nella palla in trecento, in un silenzio immacolato, denso, concentrato, gambe incrociate: in questo villaggio in continua crescita, ogni religione, ogni telefono, foto e parola è proibita, persino la loro.
Contrasti dell’India.
Per mesi l’inquinamento ci ha nascosto il cielo e le sue stelle, abbiamo vissuto senza silenzio, pur essendoci trentotto gradi all’ombra la spazzatura bruciava ai lati di ogni marciapiede.
Abbiamo fatto ascoltare “Cervo a primavera” a un indiano che ci remava via da Alleppy.
Sfiniti, invece di tornare a casa, siamo fuggiti nell’isolotto di BALI dove l’India è ancora inedita ma non cosi invadente, con due scooter 50cc abbiamo sfrecciato, impermeabili, con 30 chili di zaini per le foreste di Ubud nella stagione delle pioggie.
Il resto non potete immaginarlo: le piattole avevano le chiavi dell’ostello, i maracuja cadevano ovunque, ho rotto un dente e provato per ben due volte il dentista indonesiano combattendo il pregiudizio, la paura.
Ci siamo immersi in un fiume d’acqua dolce e calda durante un temporale. Mangiato dalle pagine dei quotidiani unti, bollenti arrosticini di porcellini d’india, abbiamo visto strade diventare fiumi in pochi minuti intorno alle nostre scarpe.
Da lì, come in un copione mai scritto, abbiamo iniziato a tornare a casa, ma senza virare, scegliendo come sempre la strada piu lunga.
Con un volo senza eliche e molti spiccioli indonesiani siamo arrivati in AUSTRALIA con l’intenzione di vivere il deserto vicino Alice Spring ma, grazie a un mezzo diluvio universale, ci siamo ritrovati per tre settimane sperduti nella disabitata e sconfinata steppa della Peninsula di York.
Un Hippie Camper piu simile a un Ape piaggio incidentato, senza frigo e senza bagno, i nostri pasti si consumavano giorno dopo sera nei BBQ elettrici dei giardini pubblici. La doccia la facevamo nelle latrine. La sera poi chiacchere e libri, senza wifi o iphone, il nostro lusso erano i negozi di cianfrusaglie e abiti usati.
Il furgone aveva una terrazza montabile e i tramonti ci facevano arrampicare sul tetto con del buon vino Neo Zelandese e Pavarotti in pole, portiere aperte, a tutto volume, passavamo giorni a guidare a turno e sonnecchiare a turno.
Tra i sobbalzi giappo-australiani del nostro furgoncino tatuato di murales, ci siamo accampati vicino l’oceano e siamo stati braccati dai simpatici Ranger che avrebbero voluto trasformarci in turisti da campeggio, ma erano troppo annoiati e felici per esser severi, non si spiegavano la nostra presenza.
L’inseguimento dei canguri al pomeriggio, le riserve, il surf, le ore senza curve, le notti di tuoni in mutande a cucinare e dormire nei parcheggi del Bingo ad Adelaide, le pastasciutte al sole in autostrada sotto eucalipti e kakatua e senza una sola auto a infrangerne il silenzio.
L’ospitalità della gente locale da classico horror nelle stazioni di servizio a galloni, le ostriche dall’oceano ancora con lo scoglio attaccato e una fluttuante solitudine.
Australia, la sensazione è di sentirsi ancora pioneri senza radici, in pace, senza chiare preoccupazioni, perché ogni giorno qui ricomincia da zero, tutte le settimane.
La COREA era troppo vicina per non metterci la nostra curiosità scodinzolante. A colpi di dita e Skyscanner siamo arrivati nel profondo est e ce ne siamo letteralmente innamorati.
La Corea è la cugina eccentrica del Giappone, ha un treno che lievita a 300 all’ora senza rumore e quasi senza paesaggio, è la patria del cibo piccante: Kimchi anche le porte!
A Busan monaci scalzi masticano radici di Ginseng fresco per pranzo. I templi hanno lanterne colorate. Poi fabbriche-grattacieli di bottoni, magliette, bandane, cappelli industriali invadono le città di tunnel e passaggi sotterrani senza che si debba uscire per chilometri.
Le sedie non sono ancora di moda qui, mentre i minimarket sono H24, come pure per il cibo espresso, ready a ogni ora grazie ai microonde.
Il rito della sauna nudi, dei piedi nudi, della pulizia alienante, dei quartieri di rubinetteria isterica.
Vivevamo in un piccolo grattacielo, un appartamento di cinque sei metri quadri con una corda d’emergenza in caso d’incendio, non abbiamo mai visto chi ci ha affittato la sua camera ma lasciava ogni giorno post-it sul suo computer spento.
Il resto? Tutto d’un fiato, passando per l’inquinamento e la monotonia di Pechino fino a casa: con gli ultimi ricordi di chi eravamo e chi vediamo oggi riflessi, senza che la parola fermarsi abiti mai nelle nostre vite.
L’obbiettivo: dimostrare ancora una volta che è la disponibilità di tempo e l’approccio positivo al coraggio, ai problemi che diventano opportunità, più che le disponibilità economiche e le comodità, danno gambe a qualsiasi viaggio. Più tempo hai, più sei in grado di muoverti lentamente, calpestando i confini senza passare dalla poltrona di un aereo.
Perché rendere scomodo e lento un viaggio che potrebbe essere comodo e veloce? Per toccare, inspirare, percepire, gustare direttamente senza che l’esperienza sia mediata.
Per non perdere tutta quella strada che unisce la partenza alla fine, per non perdere quel sacro spazio in mezzo che fa del tempo uno svantaggio solo apparente.
Perché: più difficoltà, scomodità e ostacoli (ai quali non siamo abituati) si fanno sotto, più la felicità d’averli superati (o evitati) s’impenna verso l’alto.
Si rende chiaro ciò che è indispensabile al nostro equilibrio.
Chi vaga in cerca della felicità perfetta ha già perso in partenza. Se la storia di questa terra ci insegna qualcosa è che evitare l’infelicità, è il modo più banale per essere tristi”.
Elia Giovacchini
Yumi Nicole Mastromarino
Per partecipare alla spedizione 2017: QUI.