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Cinema

Babylon, Nope e The Fabelmans: Il Cinema è morto, Evviva il Cinema!




L’altro giorno sono stato al cinema a vedere Babylon, il nuovo film di Damien Chazelle, l’enfant prodigie di Hollywood nonché autore di uno dei miei colpi di fulmine cinematografici degli ultimi anni: “La La Land“.

Dopo la mezza delusione (sicuramente più per colpa delle mie aspettative che del film) di “First Man“, attendevo con ansia questo suo nuovo progetto e stavolta sono uscito dalla sala con un sorrisone amaro, esattamente come con il suo bellissimo musical.

L’amarezza però stavolta esce dalle vicende del film, perché la riflessione malinconica che mi ha suscitato è legata ad altri film, che ho amato, usciti negli ultimi mesi che hanno come tratto comune, a mio avviso, l’essere una sorta di lettere di amore e di addio verso il linguaggio cinematografico.

Oltre a Babylon, i film in questione sono “Nope” di Jordan Peele e “The Fabelmans” di Steven Spielberg, film molto diversi ma che, da punti di vista differenti, celebrano il cinema.

Premetto che tutto ciò che dico è molto probabilmente solo nella mia testa, ma ci tenevo a tirar fuori pensieri e riflessioni che mi girano in testa fin dai titoli di coda di “Babylon”.

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Babylon di Damien Chazelle

Iniziamo parlando del film di Chazelle: si tratta di una storia corale che racconta la Hollywood degli anni ‘20, nel momento del passaggio dal muto al sonoro, e di come parte dell’industria non sia stata in grado di affrontare il cambiamento, esattamente come viene raccontato nel classico “Singin’ in the Rain”, che viene citato più e più volte, o nel più recente The Artist. 

Il film racconta questa storia con una potenza visiva impressionante, mostrando sia gli aspetti più magici che quelli più cinici dell’industria dell’intrattenimento, risultando spesso folle e scollacciato, rendendo l’esperienza (come hanno scritto in molti più competenti di me) una sorta di giro sulle montagne russe (che vengono anche citate sul finale) e capisco che il risultato possa essere totalmente rigettato da alcuni spettatori.

Discorso analogo si potrebbe fare per “Nope”, altro film che attraverso l’horror e la fantascienza, sempre dal mio punto di vista, affronta il tema della produzione audiovisiva, a metà tra l’ambizione artistica e le esigenze predatorie industriali.

Il film di Spielberg invece è un biopic che segue un po’ le orme di “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino e “Belfast” di Kenneth Branagh, cioè che racconta l’infanzia di questi registi, ma a differenza degli altri due che esplorano più la vita degli autori, questo la affronta rimanendo molto più focalizzato sull’impatto che il cinema ha avuto su di lui.

Non entro più di tanto nel merito dei film perché andrebbero visti, cosa che vi invito a fare, e soprattutto ripeto che queste sono personali letture, quindi può darsi che tutto ciò che ho detto sia solo nella mia testa, ma uno dei motivi per cui amo il cinema è proprio quello che dopo la visione di una certa pellicola il film prosegue nei miei pensieri.

E il film che mi sono fatto dopo la visione di “Babylon” è che questo terzetto stia celebrando il cinema, ma ne stia anche scrivendo i titoli di coda.

Non sto dicendo che il cinema scomparirà o altri discorsi catastrofici, ma ammettiamo una volta per tutte che una certa idea di cinema è morta da anni e chi non vuol vederlo è esattamente come un attore del muto che non accetta l’avvento del sonoro.

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The Fabelmans di Steven Spielberg

Il cinema non penso che morirà mai, esattamente come non sono morti il teatro, l’illusionismo o l’Opera, ma proprio come questi ultimi diventerà sempre più una forma d’arte culturalmente elitaria e di nicchia.

Il linguaggio popolare degli ultimi anni è stato lo streaming seriale, anche i film che sono nati per le piattaforme ammiccano in quella direzione, ma il vero fenomeno del presente sono i video brevi tipo Tik Tok, le stories di Instagram e gli short di YouTube (che da febbraio verranno monetizzati).

Personalmente non credo che questo linguaggio rimarrà a lungo, o meglio, non credo che lascerà molto, proprio per la natura effimera dei contenuti.

Infatti, come sempre, il focus sta sempre sul contenuto. Un contenuto di qualità, a prescindere dal suo contenitore, che se è quello giusto può essere qualunque, è destinato a rimanere. Tutto il resto è destinato all’oblio.

Come si dice spesso “Content is King” ma anche “But monetization is a bitch”, infatti il sistema produttivo predatorio (che a mio avviso è raccontato benissimo in “Nope”) è quello che insegue i trend e le masse, lasciando l’aspetto artistico in secondo piano, spesso decretandone la fine del loro potenziale culturale.

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Nope di Jordan Peele

Non credo di dire una sciocchezza nel sostenere che il cinema abbia educato generazioni, ed è indubbio che il potere formativo di questo linguaggio è sicuramente più profondo di quello flash di Tik Tok e simili (ci tengo a sottolineare che non sono contrario a prescindere al linguaggio iper-sintetico), ma i soldi ora girano in questi lidi e, per forza di cosa, si spostano da un’industria all’altra.

Nel film di Chazelle, così come in quello di Spielberg, il Cinema viene celebrato, ma mentre in “The Fabelmans” viene raccontato come un ricordo nostalgico dal punto di vista di un ragazzo che entra nell’industria, in “Babylon” viene raccontata proprio questa industria descritta come “il posto più magico del mondo”, ma anche “che lo era”.

In questo periodo sentiamo sempre più spesso parlare di crisi del Cinema e spesso il focus è spostato sulla crisi della sala cinematografica, ma credo che la vera crisi sia quella del linguaggio cinematografico.

A mio avviso, come dicevo, il cinema non morirà, né come linguaggio né come luogo, ma è evidente che non è più la forma di arte popolare che è stata per oltre un secolo e questi tre film, da punti di vista differenti, ce lo stanno raccontando.


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