Scopri l'universo
espanso di Gold
Gold enterprise
Goldworld Logo
A NESSUNO PIACE MILHOUSE
Cinema

Eisenstein in Messico di Peter Greenaway



Giovedì 4 giugno uscirà nelle sale italiane, distribuito da Teodora Film, EISENSTEIN IN MESSICO, il nuovo film di Peter Greenaway, presentato all’ultima Berlinale.

SINOSSI

Nel 1931, al vertice della sua carriera, il regista sovietico Sergei Eisenstein è in Messico per girare un film. Incalzato dal regime stalinista, che vorrebbe richiamarlo in patria quanto prima, Eisenstein passa gli ultimi dieci giorni del suo viaggio nella cittadina di Guanajuato. Sarà qui, con la complicità della sua guida Palomino Cañedo, che scoprirà molte cose sul Messico ma anche sulla propria sessualità e identità di artista.
Con uno stile visionario che non ha eguali nel cinema contemporaneo, Greenaway firma un ritratto originale e irriverente del grande regista russo, legandolo a una riflessione sul cinema, il sesso e la morte che sconvolge e affascina. Accolto con entusiasmo all’ultimo Festival di Berlino, il film segna il ritorno di Greenaway all’energia coinvolgente delle sue opere migliori.

PETER GREENAWAY SUL FILM

Il primo eroe cinematografico
Ho scoperto i film di Eisenstein per caso, quando avevo 17 anni. La prima sorpresa fu Sciopero, girato nel 1925 all’incredibile età di 27 anni, e mi rese impaziente di vedere tutti i film di questo regista per me sconosciuto: era il 1959, erano trascorsi solo undici anni dalla sua morte nel 1948, all’età di 50 anni. Passai in rassegna tutti i film degli autori sovietici a lui contemporanei e, a parte il fascino esercitato dall’ampia gamma degli entusiasmi visivi di Vertov, Eisenstein rimase la più grande fonte di eccitamento.
In Eisenstein c’erano degli obiettivi alti e un’intelligenza cinematografica veloce e consapevole – nessun film muto americano si muoveva a una simile velocità e nessun film in generale conteneva una tale quantità di inquadrature – nonché una sorprendente violenza dell’azione unita a un’attrazione verso la violenza in sé. Inoltre, il suo cinema abbracciava un uso della metafora e delle associazioni per immagini che non lo rendevano schiavo di una narrazione prosaica, ma gli permettevano piuttosto di correre come l’immaginazione umana, mescolando passato, presente e futuro, vecchio e nuovo. Meraviglioso! Avevo trovato il mio primo eroe cinematografico.

Propaganda della grande vita
Da allora ho visto e rivisto i film di Eisenstein, ho letto tutto quello che ha scritto, ho visitato il suo archivio a Mosca diverse volte e ogni volta con una diversa guida del posto. Sono stato nei luoghi dove ha girato i suoi film a Odessa e San Pietroburgo, ma anche a Alma Ata in Kazakistan, dove è stato costretto all’esilio, e a Riga, dove è nato e ancora si trovano gli edifici art nouveau costruiti dal padre architetto. Qui ho anche chiesto di dormire in un appartamento freddo e spoglio dove si diceva avesse giocato da bambino.
Insomma, ho nutrito il mio entusiasmo per Eisenstein sotto ogni punto di vista, leggendo anche tutte le biografie, quelle buone e quelle cattive. Nella disputa tra Est e Ovest mi sono schierato sia a favore che contro l’idea che il cinema sovietico fosse solo frusta propaganda da Guerra Fredda, finendo con la scontata e in qualche modo disperata invettiva: “La peste alle vostre due famiglie!”. Il fatto è
che quel cinema fu e non fu propaganda – nel modo in cui la Cappella Sistina potrebbe interpretarsi come magnifica propaganda per il Cattolicesimo. E perché no, in fondo? La grande arte è sempre propaganda della grande vita.

Chi svende il cinema?
La maggior parte del cinema esprime delle ambizioni basse, ha paura di macchiarsi di lesa maestà, di esser deriso per avere degli obiettivi alti, ha paura perfino di considerarsi arte e di competere ad armi pari con gli esiti più compiuti della pittura, della musica, della letteratura e del teatro. Nel 1930 il cinema era – e lo è tuttora – qualcosa di effimero, buttato lì senza nessun aggancio a un programma, a un concetto, a un’agenda di contenuti o a una teoria del linguaggio. Nella maggior parte dei casi si trattava e si tratta di contenuti di genere concepiti come letteratura illustrata, storie asservite al dialogo, che lasciano sempre insoddisfatti.
Il cinema in realtà è un mezzo d’espressione troppo ricco per essere lasciato in mano agli scrittori. “Avanti con gli scrittori!”, è quello che si sente ripetere in continuazione, anche in ogni scuola di cinema. Non c’è da stupirsi che in tutto il mondo abbiamo un cinema orientato al testo e un’industria che non fa che illustrare testi. Un cinema fatto di direttori d’orchestra e molto raramente di compositori. Perché, allora come oggi, in così tanti svendono questo mezzo? Si può capire allora perché Eisenstein sia stato così appagante per me: grandi idee sostenute consapevolmente in un flusso inarrestabile di immagini.

Il Messico e il mistero Eisenstein
C’erano dei misteri intorno a Eisenstein e forse l’enigma estetico che più mi colpiva era come fosse possibile che i suoi primi tre capolavori (Sciopero, La Corazzata Potemkin e Ottobre) fossero così diversi dagli ultimi tre (Aleksandr Nevskij, Ivan il Terribile e La congiura dei boiardi). È avvenuto un cambiamento nel suo modo di fare cinema e non solo a causa dello spirito di vendetta e della cecità di Stalin. Ho cominciato a credere che il motivo furono piuttosto quegli anni, tra il 1929 e il 1931, che Eisenstein passò lontano dall’Unione Sovietica. Quando si è lontani dal proprio paese ci si comporta diversamente e viaggiando attraverso la Russia, l’Europa occidentale e l’America, Hollywood compresa, Eisenstein conobbe le maggiori figure della cultura dell’epoca, da Joyce a Brecht, da Stroheim a von Sternberg, da Chaplin a Disney, da Buñuel alla Garbo, da Frida Kahlo a Diego Rivera… Tutte queste nuove conoscenze gli diedero nuove prospettive. Aveva una curiosità senza fine e un’immaginazione simile a un’enorme spugna. In Messico, egli rimase colpito profondamente dai traumi emotivi del sesso e della morte: “Questo paese è stupefacente. La grandi cose della vita aggrediscono in continuazione la testa, lo stomaco, il cuore. Niente può essere superficiale”.
Il sesso e la morte, Eros e Thanatos, l’inizio e la fine, entrambi inconoscibili e non negoziabili. Eros e Thanatos ti rendono più realistico, riducono ogni forma di esibizionismo, esigono attenzione per fare uso della tua mortalità: tutto questo colpì Eisenstein nel profondo in Messico. Egli non perse mai la propria intelligenza cinematografica ma credo che all’estero, lontano dal clima sovietico di cospirazione e paranoia e da tutto quel materialismo dialettico (che nessuno ha mai capito in che cosa esattamente consistesse) e ritrovandosi in un paese come il Messico, in cui si vive alla giornata, maturò emotivamente e apprese una nuova capacità di empatia e di immedesimazione di cui i suoi ultimi film sono la dimostrazione lampante.

I 10 giorni che sconvolsero Eisenstein
Palomino Cañedo, guida messicana di Eisenstein e insegnante di religioni comparate, risponde alla curiosità del regista, e attraverso di lui impariamo il modo in cui i messicani hanno adattato il Cristianesimo al loro stile di vita, la qualità della loro cucina, la rapacità della criminalità organizzata e lo stile alla Robin Hood dei folcloristici banditi locali che derubano gli stranieri. Ma la città di Guanajuato ci racconta ancora di più solo grazie alle sue chiese, ai mercati, ai campanili, ai caffè, alle strade… Il rapporto profondo del Messico con la morte, che culmina nella Festa d’Ognissanti, bilancia le ossessioni di Eisenstein sul fervore rivoluzionario e presto il regista si ritrova a condividere con Cañedo la fascinazione per quel mondo, indossando la maschera da scheletro, imparando a ballare con uno scheletro e leccando un teschio di zucchero. Eisenstein è arrivato a Guanajuato il 21 ottobre, il 25 cade l’anniversario della Rivoluzione Russa e il 31, quando il regista lascia la città, si celebra la Festa d’Ognissanti, o meglio Il Giorno dei Morti. Tale arco di tempo, in cui si svolge la sua storia d’amore, spinge Eisenstein a dire: “Questi sono i dieci giorni che sconvolsero Eisenstein. Sono dovuto venire in Messico per andare in paradiso”.

La Storia non esiste
Le intenzioni originali del progetto erano quelle di fare un documentario sul tentativo di Eisenstein di girare Que Viva Mexico, film a suo modo fallimentare perché il regista non poté mai mettere mano a quanto aveva girato e gli fu negato il diritto di montarlo. Tuttavia, sono sempre sospettoso riguardo alle cosiddette verità ufficiali offerte dai documentari. Non può esistere qualcosa come la Storia, possono esistere solo gli storici. La Storia è inattingibile. Non esistono prove definitive e, come si dice, la Storia è solo una branca della letteratura: chi scrive meglio è il dittatore della Storia. Quindi ho deciso di trasformare queste stesse preoccupazioni riguardanti il cinema documentario in un film di finzione, nella speranza di raggiungere delle verità proprio nella consapevolezza dell’invenzione. Ciò spiega anche la forma del film stesso, che affianca l’evidenza documentaria e la ricostruzione cinematografica. A questi si aggiungono poi alcuni estratti dai primi film di Eisenstein.

Verità o finzione?
Quanto di quello che c’è nel film è verità, quanto è finzione? I viaggi di Eisenstein sono ben documentati e molte persone, consapevoli dell’incontro con un grande uomo, hanno lasciato diari, lettere e foto che lo riguardano. Molte battute della sceneggiatura sono citazioni di Eisenstein tradotte dal russo. La lettera a Stalin di Upton Sinclair (uno dei finanziatori del film) è vera, così come il telegramma di risposta. Le lettere del regista alla segretaria Pera Atasheva, ricche di confessioni intime, si possono ancora leggere. Scriveva Eisenstein: “Proprio ora sono stato follemente innamorato per dieci giorni e ho avuto tutto quello che desideravo. Ciò avrà probabilmente enormi conseguenze psicologiche”. Il vestito bianco e le bretelle rosse sono vere, veri i disegni erotici, veri i libri che amava portare con sé nei viaggi in gran quantità, veri gli incontri con Frida Kahlo, Cocteau e Brecht. E infine la verità più indiscutibile: che fu il più grande regista che abbiamo conosciuto.