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L’evitamento e la ferita fantasma



“Porto sul mio corpo le ferite delle battaglie evitate”.
Così Fernando Pessoa sintetizzava un concetto fondamentale.
Quando non affronto un problema e fuggo, creo una ferita. Io la chiamo la ferita fantasma.
Perchè è una ferita creata da una cosa mai accaduta.
E come le cose non dette, anche le cose non fatte pesano come macigni.
Questo genere di ferite non si rimarginano col tempo, come quelle normali.
Al contrario, diventano più profonde col tempo.
Evitando dico a me stesso che non sono in grado di affrontare quella sfida.
E la sfida stessa si fa più ardua ogni volta che la evito, che la rimando, o che chiedo aiuto ad altre persone per affrontarla. Fino a diventare gigantesca.

Quando evito un’azione creo una credenza: non sono capace, è troppo per me.
Quando evito un pensiero creo un’ossessione: non riesco a non pensarci.
Gli esempi sono infiniti: dalle analisi del sangue rimandate per una vita, a prendere il treno da soli.
Traccio una linea invalicabile e decido, senza verificare, che non posso andare oltre.
Ecco, mi dico, questo è il mio limite.
Testare i propri limiti porta inevitabilmente, prima o poi, a scontrarsi col fallimento.
Se invece che affidarmi alle congetture mi rivolgo al metodo empirico, ho invece modo di capire quali siano i miei limiti reali, e per esperienza posso dire che la tendenza è a tracciare la linea molto prima del limite reale.

A volte ci rendiamo conto, provando una cosa, che ci piace.
Mentre pensavamo che non ci sarebbe piaciuta affatto.
Il principio è lo stesso.

Una cosa è sicura: chi non prova non sbaglia, e chi non gioca non perde.
E neppure vince, ovviamente.

Allora tanto vale provare.
Al massimo ne ricaveremo una ferita.
Che diventerà una cicatrice.
Il ricordo di una battaglia combattuta.
E questo possiamo fare: combattere la nostra battaglia.