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Banksy



«Alcune persone diventano dei poliziotti perché vogliono far diventare il mondo un posto migliore. Alcune diventano vandali perché vogliono far diventare il mondo un posto migliore da vedere»

La prima volta che ho visto qualcosa di Banksy è stato nel 2002, a New York, all’interno del negozio Triple Five Soul su Lafayette Street. Ricordo una serie di stencil di elicotteri che allestivano il negozio, ma da purista dei graffiti quale ero non apprezzai subito questo artista che è diventato oggi uno dei più quotati street artist di tutti i tempi.

A quel tempo, appena arrivato nella Grande Mela, consideravo il writing (i graffiti con le lettere per intendersi) come l’unica forma d’arte veramente valida che si poteva trovare per strada (ad eccezione di Space Invaders, che consideravo geniale), mentre ritenevo stencil, poster e adesivi una sorta di “scorciatoia da toy”.

Inutile dire che pochi mesi dopo il mio pensiero era totalmente cambiato.

In quel periodo a New York i graffiti stavano spopolando. Ogni settimana c’era una mostra o una presentazione di qualche libro legato al fenomeno. E io, lavorando presso Zoo York, noto marchio di abbigliamento da skate, ero sempre presente ed ho avuto la possibilità di entrare in contatto con tutti quei writer che fino a qualche mese prima avevo visto solo sulle pagine di libri come Subway Art e che consideravo miti a tutti gli effetti.

Ho partecipato ad un sacco di conferenze dove erano invitati personaggi come Phase 2, Zephir, Dr. Revolt, Miss Pink e ho avuto anche il piacere di entrare in stretto contatto con Futura 2000. Grazie a tutte queste esperienze (e anche grazie alla mia crescita fisiologica) iniziai a rendermi conto di come il mio punto di vista fosse limitato da un’importazione mal riuscita di un fenomeno che aveva un senso in un preciso spazio-tempo, che noi non avevamo mai vissuto, ovvero New York a cavallo tra gli anni ’70 e ’80.

Iniziai a percepire la street art in un modo diverso, ovvero come l’impossessarsi di uno spazio che per qualche ragione non si ha. Da quel momento iniziai ad abbattere una serie di muri che mi ero precedentemente costruito e iniziai ad appassionarmi di questo fenomeno più ampio che stava maturando in tutto il mondo. Così qualche tempo dopo, mentre Firenze si riempiva dei personaggi di Run, Bologna di quelli di Blu e di Ericailcane, Londra e Bristol iniziavano ad essere invase dai ratti (e molti altri personaggi) di Banksy.

Seguivo la cosa via internet, e mi appassionavo sempre più a questo personaggio misterioso che dopo gli stencil aveva iniziato ad esplorare altri campi, e mi innamorai definitivamente quando vidi le sue operazioni presso i musei, quando iniziò ad appendere a fianco di opere esposte dei suoi lavori con particolari anacronistici, come l’omino dei graffiti preistorici con il carrello della spesa o il nobile settecentesco con la bomboletta spray.

In breve tempo quel fenomeno sub-culturale diventa realtà commerciale e le opere di Banksy cominciano ad essere valutate cifre da capogiro. Il primo riconoscimento artistico avviene nel 2006, quando Christina Aguilera acquista una sua opera per 25.000 sterline. Presto i suoi lavori raggiungono quotazioni molto alte, come Bombing Middle England che nello stesso anno viene venduto a 100.000 sterline. Oggi, ogni suo intervento, che sia nei musei, nelle strade famose dello shopping internazionale o nei luoghi di divertimento di mezzo mondo, diventa notizia seguitissima dai media e la sua popolarità tra i collezionisti continua a crescere.

La cosa che mi affascina di più di Banksy è che, come molti altri suoi “colleghi”, quasi sempre ti costringe a riflettere. I suoi sono messaggi ironici e dissacranti contro il consumismo, la società dello show business, le autorità che considerano gli street artist dei fuorilegge.

Negli anni non ha mai smesso di stupire e lo stesso ha fatto con il suo film. Exit Through the Gift Shop non è solo un documentario, ma è un opera d’arte come tutto ciò che viene fatto dall’artista britannico.

Tutto è iniziato ”come un documentario su un uomo che voleva fare un documentario su di me”, racconta Banksy con il volto incappucciato e con la voce alterata elettronicamente all’inizio del film. Ma in verità, il film è molto altro. “Disaster movie” provocatorio, ironico e assurdo, Exit Through the Gift Shop è una sorta di manifesto di Banksy sulla democratizzazione dell’arte contemporanea, un racconto brutale e rivelatore di ciò che succede quando cialtroneria, successo e denaro si incontrano.

Vi si racconta la storia di Thierry Guetta, uno strampalato francese, cugino di Space Invader, che vive da molti anni a Los Angeles, uomo dai mille lavori, filmaker compulsivo senza alcuna nozione di cinematografia, ossessionato dagli artisti di strada che insegue dovunque filmandoli.

Appaiono alcuni creativi conosciutissimi, come Shepard Fairey, autore del personaggio “Obey”, ma soprattutto del celebre ritratto bicromatico per la campagna elettorale di Obama.

Il film è la storia di molti “disastri”: quello che riguarda il mondo dell’arte contemporanea e quello legato alla creazione di un “mostro” simpatico e sconclusionato ma perfettamente capace di promuovere se stesso. La trasformazione di Thierry Guetta in “Mr. Brainwash” è infatti la parabola di un uomo qualunque che diviene dal nulla artista di successo, accettato e ricercato dal sistema dell’arte.

Su tutto aleggia il genio di Banksy che mescola e rimescola continuamente le carte al punto che lo spettatore non sa più cosa nella storia sia vero e cosa sia falso: Thierry Guetta, alias Mr. Brainwash, è un’opera d’arte vivente dello stesso Banksy? Exit Through the Gift Shop è un documentario vero su un personaggio finto?

Rimane comunque il fatto che Exit Through the Gift Shop è un documento straordinario sull’opera quotidiana degli street artist che contiene alcune inedite immagini dello stesso Banksy al lavoro. Ed è un film eccezionalmente divertente, in qualunque modo lo si voglia prendere: Exit Through the Gift Shop è davvero l’unico documentario possibile su Banksy.

Dopo lo straordinario successo ottenuto nel 2010 al Sundance Film Festival e al Festival di Berlino, il film ha ricevuto la nomination come miglior documentario agli Oscar 2011, ed infine il 12 maggio 2011 vedrà la luce in Italia presso il cinema Odeon di Firenze.