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Sesto Carnera, Sph e Kiquè Velasquez: “Panicoteca” | L’intervista



Le barre, i beats, i destri, i pezzi, la ludopatia, la distopia e la filosofia di “Panicoteca“.

Paninoteca è un disco duro, scuro, con rime taglienti e beats pesanti. Il punto di vista dei tre artisti diversi, di tre provenienze diverse (San Severo provincia di Foggia, Cagliari e Bologna) è quello del furgone che vende i panini fuori dalle discoteche, dallo stadio, nei luna park, nelle sagre e nelle periferie, a camionisti e avventori notturni, con fame più o meno chimica da placare.

Perché in tutta Italia questi camioncini non sono mai in centro, ma nelle periferie. E questi furgoni sono spesso testimoni di traffici illegali, di degrado, ma anche di un certo orgoglio di chi ha sulla strada il suo palcoscenico, con i suoi attori… che non sono mai attori, ma sono persone reali.

E se la periferia non viene mai nascosta in questo disco, con le sue problematiche e i suoi vizi di narici e di destri, le tracce pompano basi che spaziano su più generi e nascondono continuamente citazioni su citazioni che devono essere scovate. Piccole perle gourmet in una cucina alla piastra grezza e autentica.

A volte sembra ci sia esaltazione di certi vizi tipica dei rapper americani, quando parlano delle loro periferie, altre volte c’è solo una descrizione di quella che Carnera chiama la “fottuta guerra di nasi”.

Ma al tempo stesso mi sembra di capire che i vizi sono vizi, e in quanto tali, tra una finzione social e una realtà di antisocialità, alla fine si pagano.

Poi non voglio fare la morale a nessuno; quindi delle varie tracce mi godo le distopie, l’umorismo della provincia (chissà perché provinciale è sinonimo di qualcosa di semplice? Per me chi viene dalla provincia ha sempre spaccato il doppio da chi veniva dalle grandi città, mah!) gli sfottò per una società complicata, ludopatica e assurda.

I fiori del male crescono rigogliosi nell’asfalto dei marciapiedi e i paradisi artificiali spesso si mescolano agli inferni terrestri.

Il vinile è disponibile qui , ma ora passiamo all’intervista.

L’idea di “Panicoteca” è veramente interessante. Se analizziamo la fenomenologia della panineria ambulante, in effetti è un non-luogo, che trovi praticamente capillarmente dappertutto in Italia, dal Nord al Sud, isole comprese. Spesso nelle periferie dove non arrivano le grandi catene alimentari di fast food, figurati i ristoranti. Da dove ti è venuta quest’idea di prendere una panineria ambulante come punto d’osservazione sociale?

Sesto Carnera: Il concept di “Panicoteca” mi è venuto in mente durante una data a Manduria, nel giugno 2024, dove suonavamo io e Sph.

Eravamo immersi nella lavorazione del disco, ma sentivamo ancora il bisogno di trovare un’idea che desse un senso compiuto all’intero progetto, che lo completasse davvero.

L’idea di raccontare le dinamiche della piazza attraverso il punto di vista di una paninoteca mi è sembrata subito perfetta: concreta, viscerale, vicina alla gente. Cercavo qualcosa che rappresentasse al meglio ciò che stavamo vivendo e mettendo in musica.

Per me, è stata anche l’ennesima conferma di quanto sia fondamentale condividere non solo la musica, ma anche la vita con chi si collabora. La cosa più bella di questo disco, alla fine, è stata proprio l’enorme affinità che si è creata tra noi tre — un’intesa nata dalla stima reciproca e cresciuta ogni giorno, tra studio e strada.

Come vi siete conosciuti?

Kiquè: Io e Sph siamo amici da anni, con alle spalle diverse collaborazioni e un legame che va oltre la musica: usciamo insieme da sempre.

Quando produco per qualcuno, cerco sempre di immedesimarmi nella sua visione, di entrare nel suo mondo per valorizzare al massimo la sua espressione artistica. È proprio così che abbiamo costruito tutto il disco, in modo naturale e condiviso.

Ho conosciuto Sesto durante una collaborazione con Prodest, sul pezzo “Pointillisme“.

Già da quella prima sessione avevo capito che tra noi c’era una forte connessione e gli dissi subito che dovevamo risentirci. Conoscendo bene Sph, ho intuito subito che lui e Sesto insieme avrebbero potuto creare qualcosa di fortissimo.

E così è stato: ogni traccia è nata in modo spontaneo, sincero, dal puro incastro di tre teste affini che si sono trovate e hanno fatto vibrare lo studio.

Come avete mescolato le varie attitudini tra voi artisti?

Kiquè: Le modalità di lavoro sono state diverse: 1 brano ad esempio è partito da una strofa di Sesto su cui ho costruito ed arrangiato il beat e per gli altri, mentre facevo i beat ho “sentito”, come se mi fosse comparsa nella mente, la loro strofa già sopra.

Per “Panopticon” ho voluto riarrangiare completamente la seconda strofa per esaltare ancora di più l’espressione di Sph.

Per “Il disco che uscì dal bagno e scomparve” avevo fatto un beat remixando T-Pain, poi Sesto c’ha scritto sopra e un giorno, quando eravamo a cena io e Sesto è arrivato Sph, gliela facciamo sentire ed è partito subito col ritornello che poi ho cantato io in talkbox!

Insomma, devo dire che c’è stata un’ottima coesione e ne sono molto felice! Questo succede solo quando si sta con persone con cui condividi tanto.

I testi sono pieni di citazioni di artisti, filosofi, pittori, tra cui Euripide, Umberto Eco, Foucault, Nietzsche, Schopenhauer, Dario Fo, Eric Clapton, Paul Gauguin… vi piace nascondere nei brani questi riferimenti?

Sesto Carnera: Sì, sono un addicted delle citazioni da parecchi anni. La mia scrittura si nutre del mio vissuto mescolato a ciò che leggo e mi appassiona nel cinema, nell’arte e nello sport.

Trovo sia molto interessante poter affiancare l’esposizione di un concetto alla visione di un autore; rafforzare un’opinione, una teoria o una visione sulla dipendenza o su determinate dinamiche di vita con difficoltà sociali.

Ad esempio: nel brano “Tenebris” con Amir Issa, in una barra dico: “ti spiego la devianza sociale secondo Merton”.

L’autore che cito è un sociologo della devianza; la mia strofa, infatti, tratta di tale questione tramite la narrativa delle dinamiche devianti che socialmente ho vissuto a San Severo.

I libri possono aprire la mente e credo che per saper stare bene al mondo sia necessario avere fame di sapere. Nella scrittura ho trovato il mio modo per esprimermi, le parole nella loro simbologia, hanno dato un senso a dei momenti della mia vita.

SPH: Sicuramente fa parte della cifra stilistica scelta, sopratutto da parte di Sesto Carnera; per quanto mi riguarda, spesso, faccio ricerche durante la scrittura oppure scavo dentro i ricordi quasi inconsciamente.

Secondo me crea anche un buon contrasto con le argomentazioni, il che può rendere fruibile anche a persone al di fuori di un certo ambiente la canzone, grazie, appunto ad una aggiunta culturale.

Ci sono anche due citazioni che proprio non conoscevo e ho dovuto cercare su internet: Pier Fortunato Zanfretta e Takeshi Kovacs. Ci racconti qualcosa di questi due personaggi?

Sesto Carnera: Takeshi Kovacs è il protagonista del romanzo e della serie tv “Altered Carbon“.

Stiamo parlando di un fantasy distopico che riuscì ad assorbire parecchia della mia attenzione. In Altered Carbon, il corpo è solo una custodia e l’essere umano è presente in un chip (simbolo dell’anima) che appunto, può essere installato in custodie differenti, in questo modo l’uomo raggiunge l’obiettivo edonico di immortalità, però, qual è il prezzo?

Il protagonista, chiaramente si dimena contro il sistema e viene travolto da dinamiche di corruzione e potere. “Sono pronto e senziente nel distopico, Takeshi Kovacs”.

SPH: Per quanto riguarda Pier Fortunato Zanfretta, l’ho conosciuto attraverso “Non aprite quella podcast” proprio nei primi periodi di scrittura.

Essendo una persona che sosteneva di aver avuto a che fare con gli alieni mi è venuto facile creare una metafora con le facce che si vedono dentro i bar o i locali ad una certa ora, come se fossero deumanizzati da alcol e sostanze, al punto tale, da sembrare alieni.

Nelle tracce ci sono diversi fili comuni che scorrono paralleli ai brani. Uno di questo è sicuramente la droga; mi date una vostra visione della cosa?

Sesto Carnera: Il disco “Panicoteca” non è un inneggio alle sostanze, bensì una critica ed un racconto sociale.

Io personalmente vengo da una delle ultime province per vivibilità in Italia (provincia di Foggia).

Ho un urgenza di raccontare ogni lato crudo del sociale che ho respirato e toccato con mano. Molte zone del meridione hanno una voce, lo merita anche la mia zona. La gente ha bisogno di essere rappresentata; oltre la disperazione deve esserci la possibilità per un individuo di essere rappresentato.

Sono molto d’accordo, io ci ho visto molto una descrizione delle periferie alla Pasolini. Per tornare agli aspetti tecnici, c’è un uso del vocoder (dico bene?), che mi ricorda tanto la west coast di Dr. Dre degli anni ’90. Chi è l’appassionato di vocoder?

Kiquè: Eccolo! Sono super appassionato di vocoder e effetti che cambiano il timbro della voce; quello che uso io si chiama Talkbox: è lo stesso “strumento” che ha utilizzato Roger Troutman per “California Love” di 2pac e Dr. Dre che conosciamo tutti.

Ha un funzionamento molto diverso dagli altri effetti e non si può propriamente definire effetto.

Infatti il talkbox non è nient’altro che una scatola chiusa con un tweeterone enorme dentro dalla quale esce un tubo; viene mandato un suono da una tastiera al talkbox, il tubo va messo in bocca e lo scopo del gioco è sostituire il suono delle corde vocali con il suono che esce dal tubo per poi “pronunciare” le parole con le corde vocali mute.

In pratica si usano solo le consonanti e si muove la bocca per metterla in posizione delle vocali nel mentre che si suona a tempo con la tastiera per dare l’intonazione, tutto questo con un tubo in bocca che non facilita per niente la pronuncia, infatti se andaste a vedere qualcuno che usa il talkbox noterete che la pronuncia è spesso malfatta.

Ormai lo suono da 20 anni; mi ricordo che un mio vecchio gruppo (Rude Stuff: Sickboy Simon, Sonni Sghilerzi e Tony Ma) avevano utilizzato i soldi di un contest che abbiamo vinto per regalarmelo che ero forse appena maggiorenne, e così ho cominciato a suonarlo ah ah.

Ad un certo punto dell’album, seguendo la tracklist, il disco gira bruscamente di 90°gradi rispetto alle tracce precedenti, con “Panopticon” (progetto di carcere ideale, che si basa sulla sorveglianza continua e totale dei detenuti), un brano totalmente differente; mi dici come è nato il pezzo?

Sesto Carnera: il brano è ispirato dal filosofo Micheal Foucault.

Ho cercato di proporre ad Sph un brano che trattasse del controllo sociale (Lebon, Bauman) dal punto di vista tematico, però, in un modo diverso dal solito e che allo stesso tempo avesse quel po’ di distopico alla “Black Mirror” (serie tv che propone scenari proposti non lontanissimi dalla possibilità di essere attuati nei tempi odierni).

Ho improntato il pensiero Foucaultiano del Panopticon nel testo (Struttura carceraria inventata da Bentham) applicato alla società.

La citazione si incastra con la tematica nel seguente modo: attualmente le folle sono state private di sensazioni, i nostri corpi sentono meno (Alexander Lowen, Reich, Pierrakos), ipnotizzati dai prodotti e dal sistema di produzione, per questo motivo il sistema ci tiene fermo nelle dinamiche imposte.

Inoltre, ci siamo aiutati nel ricreare parte dell’immaginario del film “The Hole” che ha un’impronta estremamente marcata con il filosofo citato.

La mia canzone preferita è “Liberi”, quella che sento musicalmente e a livello di testi più interessante. Raccontatemi la vostra idea di libertà, anche se dalle parole dei testi si capisce abbastanza bene.

SPH: Con il rischio di cadere nella retorica un po’ conservatrice, credo che tutta questa libertà apparente data dalla tecnologia sia solo un altro metodo manipolativo da parte di un sistema che si appropria di valori e battaglie giuste, per spolparle della loro essenza, e risputarle fuori scarne e prive di senso.

Mi rendo conto di un sistema economico che ci mette al servizio del capitale e di poteri che utilizzano politiche burattine, il tutto accompagnato da un antagonismo che ormai campa di ideali che dividono all’interno di tale raccordo sistemico senza accorgersi che tutto ciò si sta sviluppando in unica direzione: il denaro come nuovo Dio.

Kiquè: La libertà, di per se, è un concetto irraggiungibile in quanto siamo sempre quasi obbligati a fare qualche cosa.

Il concetto che più si avvicina per me alla libertà è una casa in riva al mare con cocco infinito gratis e un amico pappagallo con cui suonare e fare musica. Così mi sentirei veramente libero; per ora mi accontento di fare la musica che mi piace senza alcuna necessità di arrivare da qualche parte, solo pura espressione del se.