
Sotto il sole, nessun riparo: riflessione a partire dal documentario “Under the Sun” di Vitaly Mansky
di Erminia Maria Gullo12 Giugno 2025

Alla luce di tutto quel che sta accadendo intorno a noi, stavo riflettendo, nei giorni scorsi, sulle diverse forme di dittatura ancora presenti nel mondo: non solo quelle eclatanti, ma anche quelle più silenziose, più interiorizzate, più normalizzate.
E mi sono imbattuta nel documentario “Under the Sun“, di Vitaly Mansky: uno dei più importanti documentaristi in attività.
Il film, girato in Corea del Nord nel 2015, è noto per aver svelato – attraverso immagini girate anche di nascosto – la natura costruita, forzata e propagandistica della vita nordcoreana così come viene mostrata ufficialmente.
Nel frattempo, ho iniziato ad approfondire la storia del regime nordcoreano, da Kim Il-sung, il fondatore, al figlio Kim Jong-il, fino all’attuale guida Kim Jong-un: un personaggio che, per i suoi modi surreali, genera ilarità e milioni di meme, e che potremmo facilmente immaginare mentre si esibisce in un “Gangnam Style” – ma che, a uno sguardo più profondo, spogliato della leggerezza visiva del momento – rappresenta la continuità di un potere dinastico esercitato con strumenti totalitari: controllo totale sulla popolazione, punizione collettiva, repressione assoluta del dissenso, isolamento dal resto del mondo, e propaganda come unica forma di comunicazione.



Sapete che lo Stato distribuisce il cibo in base alla zona di residenza, alla fedeltà al regime, al lavoro svolto?
Non puoi andare al supermercato e comprare quello che vuoi, perché:
• non esistono supermercati “normali”;
• ogni cittadino è classificato in base alla lealtà ereditaria (sistema Songbun): se i tuoi nonni erano “nemici dello Stato”, tu non potrai mai studiare o sposarti liberamente;
Piccola parentesi: il non “sposarti liberamente”, in effetti, potrebbe essere una forma di tutela. Grazie Kim Jong-un! Qualche nostalgico potrebbe dire “ha fatto anche cose buone”.
• ogni casa ha una radio non disattivabile, che trasmette solo propaganda;
• ogni parola, gesto, espressione pubblica può essere motivo di arresto;
• se una persona “sbaglia”, tutta la famiglia – anche i bambini – può finire nei campi di prigionia;
• è l’unico Paese al mondo dove si applica sistematicamente la colpa ereditaria;
• decine di migliaia di persone vivono in lager a vita, con torture, fame e lavori forzati;
• non esiste processo né difesa legale;
• non puoi scegliere dove vivere, cosa indossare, cosa mangiare;
• non puoi accedere a internet, usare i social, leggere libri stranieri o ascoltare musica straniera;
• nessuno entra, nessuno esce. Nemmeno tra una città e l’altra, se non con speciali permessi.
I nordcoreani non sanno nemmeno cosa sia il mondo esterno.
Molti credono che l’intero pianeta sia simile alla Corea del Nord.
In ogni caso, quello che desidero condividere qui è ciò che ho provato osservando – o meglio, intuendo – la condizione della bambina protagonista del documentario “Under the Sun“.
Ne è nata questa riflessione. Non una recensione, non un’analisi politica.
Ma un pensiero inquieto.
Un film acclamato ovunque, forse. Ma a quale costo?
Zin-mi è la bambina ripresa nel film che ha fatto il giro del mondo, e che avrebbe dovuto “svelare la verità” sulla Corea del Nord.

L’ha svelata, sì. Ma a quale prezzo?
Una verità – già ampiamente documentata – ma qui resa visibile -sicuramente- in modo inedito e diretto.
Questa bambina, insieme ai suoi genitori, è stata scelta dal regime per essere messa in vetrina.
Il regista ha finto di sottostare alla volontà del governo nordcoreano nel confezionare un prodotto che potesse mettere in risalto – appunto – il meraviglioso mondo incantato della Corea del Nord.
Ma dietro quella vetrina, le telecamere non si sono mai spente.
Il regista ha deciso di filmare di nascosto la stanchezza, la sottomissione, la difficoltà a reggere la finzione di quella famiglia. Tra una scena e l’altra.
E si scopre -ma va?- che non ce sta Cirilli che imita Psy.
Quelle persone non sono più persone.
Sono corpi guidati da altri, sottomessi al copione, esecutori obbedienti di una narrazione imposta.
Un’operazione intelligente, potente, tecnicamente impeccabile.

Ma in Corea del Nord, quando una persona “sbaglia”, non paga solo lei.
Pagano i genitori, gli zii, i nonni, i vicini di casa, gli insegnanti.
Pagano i funzionari che hanno seguito il progetto, le guide, i mediatori, gli addetti alla sicurezza.
Chiunque abbia avuto a che fare con quel film è potenzialmente colpevole.
E oggi, a distanza di anni, non si hanno più notizie certe sulla sorte della bambina, della sua famiglia o di chi abbia collaborato alla realizzazione del progetto.
Non è possibile sapere con esattezza cosa sia accaduto.
Ma nella Corea del Nord, l’assenza totale di informazioni può avere significati molto gravi.
Spesso coincide con la scomparsa.
E la scomparsa, in quel Paese, significa spesso lavoro forzato, punizione collettiva, deportazione.
Anche per chi era solo “nelle vicinanze”.
Questa famiglia è stata usata dal regime per uno scopo di propaganda.
E il film, pur con intenti di denuncia, non ha potuto proteggerla.
Senza che a loro fosse mai concesso di scegliere.
E se denunciare un sistema vuol dire sacrificare volti ignari, allora quella denuncia rischia diventare un altro tipo di controllo, più sottile, ma non meno concettualmente “violento”.
Un film acclamato ovunque, forse. Ma a quale costo? Applausi internazionali, apericena e feste con Bob Sinclar in djset in cambio di un silenzio eterno.
Voi cosa ne pensate?
Nota bene: questa riflessione nasce da un punto di vista strettamente personale.
Non intende accusare individui, né attribuire responsabilità certe, ma solo porre domande etiche e umane.
Su quanto sappiamo. E su ciò che – purtroppo – non possiamo sapere.
Va riconosciuto, in ogni caso, che il lavoro del regista ha richiesto coraggio e lucidità.
E proprio per questo, la responsabilità etica di ogni scelta, in simili contesti, diventa ancora più cruciale.